VILLA REALE E DUOMO DI MONZA 19/06/16

VILLA REALE DI MONZA

La Villa Reale di Monza è un grande palazzo in stile neoclassico che fu realizzato e usato come residenza privata dai reali Austriaci, successivamente diventato Palazzo Reale con il Regno d’Italia Napoleonico, e mantenuto in tale funzione – seppur via via diminuendo – dalla monarchia Italiana dei Savoia, ultimi Reali ad utilizzarlo.Attualmente ospita mostre, esposizioni e in un’ala anche l’Istituto Superiore d’Arte e il Liceo artistico di Monza. La costruzione della villa fu voluta dall’imperatrice d’Austria Maria Teresa quale residenza estiva per la corte arciducale del figlio Ferdinando d’Asburgo-Este, Governatore Generale della Lombardia austriaca dal 1771, che inizialmente si era stabilita nella Villa Alari di Cernusco sul Naviglio, presa in affitto dai conti Alari. La scelta di Monza fu dovuta alla salubrità dell’aria e all’amenità del paese, ma esprimeva anche un forte simbolo di legame tra Vienna e Milano, trovandosi il luogo sulla strada per la capitale imperiale.L’incarico della costruzione, conferito nel 1777 all’architetto imperiale Giuseppe Piermarini, fu portato a termine in soli tre anni. Successivamente il giovane arciduca Ferdinando fece apportare aggiunte al complesso, sempre ad opera del Piermarini e usò la Villa come propria residenza di campagna fino all’arrivo delle armate napoleoniche nel 1796.Tra i principali modelli da cui Piermarini prese ispirazione vi sono il Castello di Schönbrunn e la Reggia di Caserta del suo maestro Vanvitelli. Da Schönbrunn è ripresa in particolare la pianta ad U rovesciata, che unisce il forte impatto scenografico che le ali laterali conferiscono alla facciata principale, alla comodità distributiva che prevedeva l’utilizzo del corpo centrale per le funzioni di rappresentanza, le ali laterali per gli appartamenti privati e gli avancorpi per le funzioni di servizio. A tale scopo, il corpo principale presenta solo due piani di altezza doppia rispetto ai locali delle ali laterali, oltre al belvedere centrale situato al terzo piano. Nelle ali destinate a funzioni private i piani sono invece cinque, con due di minore altezza destinati alla servitù. A differenza degli altri palazzi imperiali, è qui preferito l’orientamento est-ovest delle facciate, rispetto al classico orientamento nord-sud che garantiva un maggior irradiamento solare. È discusso se tale scelta fosse dovuta a garantire un clima più fresco nei locali della villa, piuttosto che la volontà di orientare la facciata sui giardini verso le capitali dell’impero austro-ungarico. L’estensione è vastissima: 700 locali per un totale di 22.000 m²[1]. Eugenio di Beauharnais, nel 1805 nominato viceré del nuovo Regno d’Italia, fissò la sua residenza principale nella Villa che quindi in questa occasione assunse il nome di Villa Reale. Il nuovo viceré commissiono al suo architetto di fiducia Luigi Canonica delle migliorie per la villa, oltre alla costruzione di un Teatrino Reale, che fu realizzato nell’ala nord, e di un grande Parco. Infatti tra il 1806 e il 1808 per suo volere al complesso della Villa e dei suoi Giardini fu affiancato il Parco, recintato e vasto 750 ettari, destinato a tenuta agricola e riserva di caccia[2].Dopo la caduta di Napoleone (1815) vi fu il ritorno degli austriaci con la nomina a viceré del Lombardo-Veneto di Ranieri Giuseppe d’Asburgo-Lorena. L’arciduca Ranieri era un appassionato di botanica e fu grazie a lui che il parco raggiunse l’attuale estensione. Fu sempre grazie a lui che nel 1819 fu aperta nel parco una scuola per formare dei giardinieri professionisti atti a curare i giardini delle residenze imperiali. L’arciduca commissionò all’architetto Giacomo Tazzini un riammodernamento della villa. Operò in particolare sugli appartamenti riservati ai figli e alle figlie dell’arciduca, oltre che sui pavimenti, che furono arricchiti di decori preziosi, e sui bagni. Ranieri lasciò Monza nel 1848 e per un brevissimo lasso di tempo vi si stabilì il maresciallo Radetzky. Nel 1857 giunse il nuovo governatore del Lombardo-Veneto l’arciduca Massimiliano d’Asburgo che la occupò in modo sporadico per soli due anni, chiudendo definitivamente il periodo austroungarico della Villa Reale[3].Con la fine della seconda guerra di indipendenza (1859) dunque la Villa Reale divenne patrimonio di Casa Savoia. Nel 1868 la villa fu regalata da Vittorio Emanuele II al figlio, il futuro Umberto I per il suo matrimonio con la cugina Margherita di Savoia. La villa fu un regalo molto gradito e subito utilizzata dalla coppia, che tuttavia attese la morte del re, prima di realizzare dei lavori di ammodernamento, grazie all’ausilio degli architetti Achille Majnoni d’Intignano e Luigi Tarantola.

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Il 29 luglio 1900 Umberto I fu assassinato proprio a Monza da Gaetano Bresci mentre assisteva ad una manifestazione sportiva organizzata dalla società sportiva “Forti e Liberi”, tuttora in attività. In seguito al luttuoso evento il nuovo Re Vittorio Emanuele III non volle più utilizzare la Villa Reale, facendola chiudere, lasciandole un senso di mausoleo e trasferendo al Quirinale gran parte degli arredi. Nel 1934 con Regio decreto Vittorio Emanuele III fece dono di gran parte della Villa ai Comuni di Monza e di Milano, associati. Ma mantenne ancora la porzione sud con sale dell’appartamento del padre, Re Umberto I, sempre costantemente chiusi, in sua memoria. Le vicende dell’immediato dopoguerra della seconda guerra mondiale provocarono occupazioni, ulteriori spoliazioni e decadimento del monumento. Con l’avvento della Repubblica, l’ala sud è diventata patrimonio e amministrata dallo Stato. Il resto della Villa Reale è amministrata congiuntamente dai comuni di Monza e Regione Lombardia.Dopo un lungo periodo di degrado dovuto anche al frazionamento delle amministrazioni, a marzo 2012 sono iniziati i lavori di restauro[4] all’interno della villa, che prevedono il recupero e la valorizzazione del corpo centrale, il recupero parziale delle ali nord e sud, la realizzazione dell’area tecnica esterna alla Villa nel lato nord e il recupero del Cortile d’onore dell’avancorte. Per quanto riguarda la struttura edilizia, è previsto il consolidamento delle murature del piano terra, il restauro e consolidamento delle volte e dei solai lignei, la realizzazione di opere di manutenzione straordinaria per la messa in sicurezza della corte e il ripristino della pavimentazione, della cancellata e della facciata sud dell’area nord. Inoltre, il progetto prevede la riqualificazione del belvedere e il restauro delle sale del piano terra. I lavori sono terminati a febbraio 2014 e il 26 giugno 2014 la villa è stata inaugurata[5]. Attualmente si possono visitare gli appartamenti reali di Umberto I e Margherita di Savoia che conservano ancora parte degli arredi, oltre alle sale di rappresentanza e gli altri appartamenti privati allestiti per la visita dell’Imperatore di Germania Guglielmo II nel 1889, per il Principe di Napoli futuro Vittorio Emanuele III e per la Duchessa di Genova, Elisabetta di Sassonia, madre della Regina Margherita[6]. La Villa, i Giardini Reali e il Parco sono gestiti da un Consorzio unico (Consorzio Villa Reale e Parco di Monza), di cui fanno parte gli enti proprietari della villa. Piermarini realizza un edificio esemplare della razionalità neoclassica adattata alle esigenze di una realtà suburbana. I tre corpi principali, disposti a U, delimitano un’ampia corte d’onore chiusa all’estremità dai due volumi cubici della Cappella e della Cavallerizza, da cui partono le ali più basse dei fabbricati di servizio: si definisce in tal modo uno spazio razionale, costituito dall’ordinata disposizione dei volumi che si intersecano ortogonalmente e che, progressivamente, si sviluppano in altezza. Come nella reggia di Caserta di Vanvitelli e prima ancora a Versailles, nella Villa reale di Monza si sottolinea un percorso che, attraverso un viale principale, collega la villa al centro del potere.La decorazione delle facciate, rinunciando a timpani, colonnati e riquadri a rilievo, si presenta estremamente rigorosa, segnando le superfici di sottili gradazioni. L’essenzialità stilistica dell’edificio è dovuta, oltre che a precise scelte di gusto, anche a ragioni politiche: la corte illuminata di Vienna preferiva evitare un’eccessiva ostentazione di ricchezza e potere in un paese occupato. Anche gli interni si accordano al principio di razionalità e semplicità che caratterizza l’intero progetto. In particolare appare curata la loro funzionalità: i corridoi ad esempio sono tagliati in modo da servire indipendentemente varie sale adibite ad usi diversi.La decorazione interna viene affidata ai principali maestri della neonata Accademia di Brera, fondata per volontà arciducale nel 1776. In particolare gli stucchi e le decorazioni delle sale di rappresentanza sono dovuti al ticinese Giocondo Albertolli, gli affreschi e i dipinti a Giuseppe Levati e Giuliano Traballesi, pavimenti e mobili alla bottega di Giuseppe Maggiolini.Il complesso della Villa comprende la Cappella Reale, la Cavallerizza, la Rotonda dell’Appiani, il Teatrino di Corte, l’Orangerie. Nel primo piano nobile sono le sale di rappresentanza, gli appartamenti di Umberto I e della Regina Margherita. La fronte della Villa rivolta ad est si apre sui Giardini all’inglese progettati dal Piermarini. L’edificio destinato alle serre per il servizio dei giardini della Villa, denominato Orangerie nel progetto originale piermariniano e oggi comunemente noto come il Serrone, fu costruito nel 1790. Voluto dall’archiduca Ferdinando d’Asburgo-Este in occasione del ventesimo anniversario di matrimonio con Maria Beatrice Ricciarda d’Este fu disegnato sul modello dell’Orangerie della reggia di Schönbrunn. Posto sul lato nord della villa era collegato a questa tramite un corridoio chiamato “Passaggio delle dame”. Un piccolo ambiente circolare, ora chiamato la Rotonda dell’Appiani introduceva alla grande serra[10].L’ambiente, imponente per le dimensioni, è esposto e riceve la luce da sud da una lunga serie di finestre. In esso, oltre al ricovero invernale delle piante più delicate ed in generale delle piante esotiche, in età asburgica si soleva tenervi anche spettacoli di vario genere per la Corte.Nella seconda metà del XX secolo, proprio davanti al Serrone, è stato impiantato un vasto roseto nel quale annualmente nel mese di maggio viene indetto un concorso floreale.Dopo i restauri intervenuti, l’edificio oggi è destinato a sede di mostre d’arte temporanee.

LA CAPPELLA TEODOLINDA

La cappella di Teodolinda si trova nel duomo di Monza, a sinistra dell’abside centrale. Vi si conserva, in un’apposita teca nell’altare, la corona ferrea, inoltre è decorata da un ciclo di affreschi degli Zavattari, famiglia di pittori con bottega a Milano, che è il maggior esempio di ciclo pittorico dell’epoca tardo gotica lombarda. La cappella venne eretta, insieme alla gemella di destra dedicata alla Vergine, nell’ambito della rielaborazione della testata absidale che coinvolse la fabbrica trecentesca del duomo di Monza, alla fine del XIV secolo. Non è chiaro se pitture murali che la rivestono siano state commissionate dal duca Filippo Maria Visconti, del quale è raffigurato lo stemma con la scritta “FI MA”, oppure costituiscano il riflesso di un orientamento locale favorevole ad una successione interna alla dinastia attraverso Bianca Maria Visconti, figlia naturale di Filippo Maria, andata in sposa nel 1441 a Francesco Sforza, la cui figura s’intravvede in filigrana dietro le vicende della regina longobarda. Come ha chiarito un decumento notarile rinvenuto alcuni anni fa, la decorazione fu realizzata dalla famiglia Zavattari tra il 1441 circa e il 1446. “Dominus” dell’impresa fu Franceschino Zavattari, figlio del mastro vetraio Cristoforo, coadiuvato dal figlio maggiore Gregorio e da un altro figlio Giovanni (un terzo figlio, Ambrogio, di cui è nota l’attività non è menzionato). Nel 2008 è iniziato un programma di restauro dei dipinti, affidato ad Anna Lucchini e coordinato dalla Fondazione Gaiani con il sostegno del World Monument Found, che si è concluso nel gennaio 2015. L’ambiente, chiuso dalla cancellata progettata alla fine dell’Ottocento da Luca Beltrami, è coperto da una volta costolonata nelle cui vele sono dipinti gli Evangelisti. Si tratta del primo intervento decorativo della cappella, forse da riferire al momento della consacrazione dell’altare, dedicato a san Vincenzo, nel 1433. L’autore resta anonimo, e gli stessi Zavattari nell’iscrizione che firma il ciclo, ci tennero a dichiarare la loro estraneità da questa parte delle pitture. La serie delle Storie di Teodolinda si compone di 45 scene disposte su cinque registri sovrapposti che rivestono interamente le pareti. La decorazione, che avvolge anche gli stipiti, ed è introdotta dal grande arcone di valico verso il transetto nel quale giganteggia la figura di san Giovanni Battista, cui è dedicato il tempio, adorato dalla regina e dal marito Agilulfo. La fonte primaria è l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, integrata dalla cronaca dello storico monzese di età viscontea Bonincontro Morigia. La cappella di Teodolinda è l’unica parte attualmente visibile di un vasto progetto di decorazione della testata absidale che coinvolgeva la cappella gemella di destra, l’abside maggiore e l’arcone trionfale della nave mediana (ora celato al di sopra della volta seicentesca). Di tale progetto fu probabilmente ideatore Franceschino Zavattari, testimoniato a Monza già nel 1420-21, legato alla potente famiglia locale dei Rabia, coadiuvato da figlio maggiore Gregorio, da un altro figlio, Giovanni, e da un aiuto esperto nella macinazione dei colori. La scena 32 è firmata collettivamente “de Zavatarijs” e datata 1444.La numerazione parte dall’alto a sinistra ossia da nord a sud. Le scene da 1 a 23 descrivono i preliminari e le nozze tra Teodolinda e Autari, fino alla morte del re; da 24 a 30 sono raffigurati i preliminari e le nozze tra la regina e il secondo marito Agilulfo; da 31 a 41 si narra la nascita e sviluppo del duomo, la morte di Agilulfo e quella di Teodolinda; dalla 41 alla 45 infine si narra dell’approdo sfortunato dell’imperatore Costante e del suo ritorno a Bisanzio. Il ritmo della narrazione varia da molto veloce a molto lento, sottolineando alcuni episodi storici di particolare importanza, secondo gli autori e i committenti. In particolare si contano ben 28 scene nuziali o di preparazione al matrimonio, che hanno fatto pensare a un collegamento con la vicenda di Bianca Maria Visconti e il passaggio di potere tra i Visconti e gli Sforza: l’analogia con la vicenda della regina longobarda, che scelse il nuovo re prendendolo come marito, legittimerebbe la presa di potere di Francesco Sforza per via matrimoniale nel 1441.Molti sono gli episodi di vita cortese, come i balli, i banchetti, le feste, le battute di caccia, con una preziosa descrizione di abiti, acconciature, armi ed armature, che forniscono uno straordinario spaccato della vita di corte a Milano nel XV secolo.Autari, re dei Longobardi, manda inviati a Childeberto, re dei Franchi, per chiedere la mano della sorella Inganda (lunettone)

Childeberto riceve gli inviati, ma ha già promesso la sorella al figlio re di Spagna (lunettone)

Ritorno in Italia degli inviati longobardi (inizio della seconda fascia, quella più in alto, da sinistra)

Autari incarica gli invitati di recarsi alla corte di Garibaldo duca dei Bavari, per chiedere la mano della figlia Teodolinda

Partenza degli inviati per la Baviera

Garibaldo riceve gli invitati longobardi ed esaudisce la loro richiesta

Ritorno degli invitati in Italia

Autari riceve i suoi invitati accompagnati da una delegazione dei Bavari

Autari si reca in Baviera in incognito

Teodolinda accoglie la delegazione e porge ad Autari la bevanda di benvenuto senza riconoscerlo

Autari torna in Italia

Festa alla corte longobarda

Il re dei Franchi Childeberto muove guerra ai Longobardi e sconfigge il duca di Baviera (inizio della terza fascia, da sinistra)

Garibaldo, Teodolinda e il fratello di lei fuggono in Italia

Arrivo di Teodolinda in terra longobarda

Gli inviati informano Autari dell’arrivo di Teodolinda

Autari a cavallo va incontro a Teodolinda

Incontro di Teodolinda e Autari presso Verona

Matrimonio della coppia (15 maggio 590)

Ingresso della coppia a Verona

Festeggiamenti per il matrimonio a Verona

Autari conquista Reggio Calabria

Autari muore avvelenato a Pavia (5 settembre 590) (inizio della quarta fascia, da sinistra)

Teodolinda viene confermata regina dei Longobardi e ottiene di scegliere il secondo marito. La sua scelta cade su Agilulfo, duca di Torino

Agilulfo riceve un messaggio di Teodolinda

Agilulfo e Teodolinda si incontrano a Lomello

Agilulfo rinnega l’arianesimo, si converte alla fede cattolica e prende il nome di Paolo

Incoronazione di Agilulfo a re dei Longobardi

Matrimonio di Teodolinda e Agilulfo

Banchetto di nozze

Partenza della coppia reale per la caccia

Scena divisa in due parti:

Teodolinda sogna che la colomba dello Spirito Santo le indicherà il luogo dove dovrà erigere la sua chiesa

Partenza della regina alla ricerca del luogo adatto

Apparizione dello Spirito Santo in forma di colomba

Posa della prima pietra del duomo di Monza (inizio della quinta fascia, quella più in basso, da sinistra)

Teodolinda fa trasformare gli idoli pagani nel tesoro cristiano della nuova chiesa

Donazioni di Teodolinda al duomo

Adaloaldo, il giorno della sua incoronazione, dona alla chiesa altri tesori

Morte di Agilulfo

Papa Gregorio Magno consegna al diacono Giovanni doni per il duomo di Monza, fra cui reliquie e codici

Il diacono Giovanni consegna i doni al vescovo di Monza alla presenza di Teodolinda

Morte della regina Teodolinda

L’imperatore Costante IV parte per cacciare i Longobardi dall’Italia

Arrivo in Italia dell’imperatore Costante

Un eremita predice all’imperatore che non riuscirà a sconfiggere Longobardi

L’imperatore Costante lascia l’Italia senza combattere

La tecnica pittorica è molto complessa e preziosa, con affresco, tempera a secco, decorazioni a rilievo, dorature in foglia e in pastiglia, come in una grande miniatura monumentale Anche se in parte rappresentano fatti storici, le scene affrescate esprimono un ambiente ideale, con personaggi nei costumi di epoca viscontea contro un cielo d’oro.Lo stile di queste pitture mostra un’adesione tarda ai modi Michelino da Besozzo, con linee eleganti e colori tenui. Grande attenzione è posta ai dettagli, mentre le figure sembrano attonite e senza peso,Il frontale dell’arco d’ingresso alla cappella e la volta sono dipinti con figure di santi ed evangelisti da un ignoto pittore del XV secolo. Al centro della cappella un altare custodisce lo scrigno della Corona Ferrea, il diadema con il quale furono incoronati re longobardi, re d’Italia ed imperatori del Sacro Romano Impero.Dietro l’altare e contro la parete di fondo si trova il sarcofago nel quale, nel 1308, il corpo della regina Teodolinda fu traslato dalla prima sepoltura nella originaria Basilica longobarda. Contro la parete di fondo della cappella si trova il sarcofago in cui nel 1308 furono traslati i resti della regina Teodolinda. Una ricognizione, compiuta nel 1941, ha confermato la presenza di ossa umane, maschili e femminili, resti di monili d’oro, e alcune monete che i pellegrini medievali infilavano in segno di devozione. I materiali rinvenuti sono esposti nel Museo e Tesoro del Duomo.Al centro della cappella è l’altare neogotico, ideato da Luca Beltrami nel 1888 su richiesta di re Umberto I: al centro si trova la cassa che contiene la teca estraibile della corona ferrea.

LA CORONA FERREA

La Corona Ferrea o Corona di Ferro è un’antica e preziosa corona che venne usata dall’Alto Medioevo fino al XIX secolo per l’incoronazione dei Re d’Italia. Per lungo tempo, gli imperatori del Sacro Romano Impero ricevettero questa incoronazione[1].All’interno della corona vi è una lamina circolare di metallo: la tradizione vuole che essa sia stata forgiata con il ferro di uno dei chiodi che servirono alla crocifissione di Gesù. Per questo motivo la corona è venerata anche come reliquia, ed è custodita nel duomo di Monza nella Cappella di Teodolinda. Verso l’anno 324, su incarico del figlio, Elena, madre dell’imperatore Costantino I, fece dissotterrare tutta l’area del Golgota, area che era stata interrata dall’imperatore Adriano per creare un grande terrapieno all’interno della nuova città Aelia Capitolina fatta sorgere sulle rovine di Gerusalemme dopo le rivolte Giudaiche del II secolo. Durante questi lavori, che portarono all’edificazione della Basilica costantiniana e dell’Anàstasis, secondo la tradizione cristiana furono trovati gli strumenti della Passione di Gesù, tra cui quella che venne identificata come la “vera Croce”, con i chiodi ancora conficcati. Elena lasciò la croce a Gerusalemme, portando invece con sé i chiodi: tornata a Roma, con uno di essi creò un morso di cavallo, e ne fece montare un altro sull’elmo di Costantino, affinché l’imperatore e il suo cavallo fossero protetti in battaglia.La storica Valeriana Maspero ritiene invece che la corona fosse il diadema montato sull’elmo di Costantino, dove il sacro chiodo era già presente. L’elmo e il morso, insieme alle altre insegne imperiali, furono portati a Milano da Teodosio I, che vi risiedeva: Ambrogio li descrive nella sua orazione funebre de obitu Teodosii. Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, l’elmo fu portato a Costantinopoli, ma in seguito fu reclamato dal goto Teodorico il Grande, re d’Italia, il quale aveva a Monza la sua residenza estiva. I bizantini gli inviarono il diadema trattenendo la calotta dell’elmo. Il “Sacro Morso” rimase a Milano: oggi è conservato nel duomo della città. Due secoli dopo papa Gregorio I avrebbe donato uno dei chiodi a Teodolinda, regina dei Longobardi, che fece erigere il duomo di Monza; ella fece fabbricare la corona e vi inserì il chiodo, ribattuto a forma di lamina circolare. La tradizione che legava la corona alla passione di Gesù e al primo imperatore cristiano ne facevano un oggetto di straordinario valore simbolico, che legava il potere di chi la usava a un’origine divina e a una continuità con l’impero romano. La Corona Ferrea fu usata dai re Longobardi, e poi da Carlo Magno (che la ricevette nel 775) e dai suoi successori, per l’incoronazione dei re d’Italia.Indagini storiche più recenti ritengono che la conformazione odierna della corona sia dovuta a interventi databili tra il V e il IX secolo. Essa potrebbe essere stata un’insegna reale ostrogota, passata poi ai Longobardi e quindi ai Carolingi, i quali, dopo averla restaurata, la donarono al Duomo di Monza, chiesa reale fatta erigere da Teodolinda.Gli imperatori del Sacro Romano Impero venivano incoronati tre volte: una come re di Germania, una come re d’Italia, una come Imperatore (quest’ultima corona veniva imposta dal Papa). L’incoronazione con la Corona Ferrea si svolgeva a Milano, nella basilica di Sant’Ambrogio; altre volte tuttavia la cerimonia si svolse a Monza (nel Duomo o nella Chiesa di S.Michele) oppure a Pavia, e saltuariamente in altre città ancora.Tra un’incoronazione e l’altra, la Corona Ferrea risiedeva nel Duomo di Monza, che per questo motivo era dichiarata “città regia”, proprietà diretta dell’imperatore, e godeva di privilegi ed esenzioni fiscali.La corona attraversò tuttavia alcune vicissitudini: nel 1248, insieme al resto del Tesoro del Duomo, fu data in pegno all’ordine degli Umiliati, a garanzia di un ingente prestito contratto dal capitolo del duomo per pagare una pesante imposta straordinaria di guerra, e fu riscattata solo nel 1319. Successivamente, sempre come parte del Tesoro, fu trafugata dal cardinale Bertrando del Poggetto durante l’occupazione crociata di Monza (1323-24) e inviata a suo zio, papa Giovanni XXII ad Avignone. La corona rimase presso il seggio papale dal 1324 al 1345: durante questo periodo fu persino rubata, ma il ladro fu catturato e la refurtiva recuperata. Al momento della restituzione, venne effettuato un nuovo censimento del tesoro nel quale si constatò il danneggiamento della corona a causa della sottrazione di due delle otto placche che la componevano: la reliquia fu quindi affidata nello stesso anno all’orafo Antellotto Bracciforte, che la rinforzò con una corona interna in argento, la quale in seguito venne identificata con il Sacro Chiodo. Da quel momento non fu possibile per un uomo indossare la Corona d’Italia sul proprio capo, date le dimensioni ridotte: le successive incoronazioni vennero infatti effettuate con l’ausilio di speciali copricapi.Papa Innocenzo VI, nel quadro della lotta per le investiture, promulgò nel 1354 un editto con il quale rivendicava il diritto di Monza all’imposizione della Corona Ferrea nel Duomo, subito disatteso.La tradizione della triplice incoronazione si interruppe con Carlo V, che fu incoronato nel 1530 a Bologna: abdicando nel 1556, egli divise l’impero in due, separando così i regni di Italia e Germania. Nel 1576 san Carlo Borromeo istituì il culto del Sacro Chiodo, per celebrare la venerazione della Corona e legarla all’altro Chiodo della Passione nel Duomo di Milano.Due secoli dopo, però, il Ducato di Milano passò all’Austria e la tradizione riprese: l’imperatore Francesco I ricevette la Corona Ferrea nel 1792.L’incoronazione più famosa è però quella di Napoleone Bonaparte, che si incoronò re d’Italia nel 1805: nel rito celebrato nel Duomo di Milano, egli si impose da solo la corona sul capo, pronunciando la frase: “Dio me l’ha data e guai a chi me la toglie!”. Per devozione alla corona Napoleone istituì poi l’Ordine della Corona ferrea. Dopo la parentesi napoleonica, l’incoronazione ritornò prerogativa degli imperatori d’Austria, e Ferdinando I la ricevette nel 1838. Durante le guerre d’indipendenza italiane, la corona fu requisita da Monza e portata a Vienna, ma nel 1866, dopo la sconfitta dell’Austria nella terza guerra d’indipendenza, fu restituita all’Italia e ritornò a Monza.I Savoia tuttavia non la utilizzarono mai per le incoronazioni, poiché conservarono la corona del Regno di Sardegna dal quale nasce l’attuale Italia (anche nello stemma regio). Inoltre essa era diventata negli anni precedenti un simbolo della dominazione austriaca, oltre a ciò il Regno d’Italia era in conflitto con il Papato, in seguito alla presa di Roma, e l’utilizzo di una corona che era anche una preziosa reliquia era poco opportuno. In ogni caso la corona faceva parte delle insegne reali, come testimonia l’esposizione di essa ai funerali di Vittorio Emanuele II (1878), il quale aveva anche istituito l’Ordine cavalleresco della Corona d’Italia. Il re Umberto I forse meditava di incoronarsi con la Corona Ferrea quando il clima politico fosse stato più favorevole: nel 1890 egli inserì la Corona Ferrea nello stemma reale, e nel 1896 donò al duomo di Monza, città in cui egli amava risiedere, la teca di vetro blindato in cui essa è tuttora custodita. Il suo assassinio nel 1900 interruppe i suoi progetti, ma di nuovo alle sue esequie venne esposta la Corona e la sua tomba al Pantheon ne reca una copia bronzea.Il figlio Vittorio Emanuele III non volle alcuna cerimonia di incoronazione.Con la proclamazione della Repubblica Italiana nel 1946, la Corona Ferrea smise definitivamente di essere un simbolo di potere, per essere solo una reliquia e un prezioso cimelio storico.L’ultimo viaggio della corona avvenne durante la seconda guerra mondiale: temendo che i tedeschi volessero impadronirsene, nel 1943 il cardinale Ildefonso Schuster la fece trasferire segretamente in Vaticano, dove rimase fino al 1946. Essa ritornò portata da due canonici del duomo di Monza, nascosta in una cappelliera dentro una valigia.Lo storico monzese Bartolomeo Zucchi, che scriveva intorno al 1600, contò 34 incoronazioni avvenute fino a quel momento. Non tutte queste incoronazioni sono però comprovate da documentazioni storiche.

Tra quelle sicure, oltre a quelle longobarde, si ricordano:

Carlo Magno (800)

Arduino d’Ivrea (1002)

Corrado II (1024)

Corrado III (1128)

Federico Barbarossa (1155)

Enrico VI (1186, in occasione delle nozze con Costanza d’Altavilla)

Enrico VII di Lussemburgo (1311)

Carlo IV (1355, presente Francesco Petrarca)

Carlo V d’Asburgo (1530, a Bologna. Per non far scivolare la corona usò un particolare copricapo a forma di cono)

Napoleone I (1805)

Ferdinando I d’Austria (1838], che usò un’altra corona per contenerla, collegata con catenelle, per non farla scivolare

                      Il prezioso cimelio è in lega di argento e oro all’80% circa, ed è composto di sei placche legate fra loro da cerniere verticali; ha il diametro di cm 15 e l’altezza di cm 5,5; il peso è di 535 grammi. È adornata di ventisei rose d’oro a sbalzo, ventidue gemme di vari colori e ventiquattro placchette floreali a smalto cloisonné. Le gemme rosse sono granati, viola sono ametiste, il corindone è blu scuro. Altre decorazioni sono in pasta vitrea. La lamina circolare che tradizionalmente si identifica con il Sacro Chiodo corre lungo la faccia interna delle sei placche. La corona è troppo piccola per cingere la testa di un uomo: si ritiene perciò che in origine fosse composta di otto placche invece che sei. La corona è custodita nella cassaforte protetta da due porte. È nella teca dal 1885 per volontà di Umberto I.Secondo la ricostruzione di Valeriana Maspero, in origine le placche d’oro avevano soltanto la gemma centrale, come si vede in alcune monete che ritraggono Costantino con il suo elmo in testa. Due corone ritrovate nel XVIII secolo a Kazan’, in Russia, sono del tutto simili; probabilmente anche la Corona Ferrea fu opera di orefici orientali.Le lastrine colorate con le altre pietre furono aggiunte presumibilmente da Teodorico, il quale fece rimontare il diadema su un altro elmo, in sostituzione di quello trattenuto dai bizantini. Carlo Magno fece poi sostituire alcune delle lastrine che si erano rovinate. L’esame al carbonio-14 condotto su due pezzetti di stucco ha infatti datato uno di essi intorno al 500, e l’altro intorno all’800. L’aspetto della corona successivo al restauro di Carlo Magno è testimoniato dai documenti dell’incoronazione di Federico Barbarossa: essa non era più montata su un elmo, ma portava solo un archetto di ferro sulla sommità. Essa aveva ancora la dimensione adatta ad essere portata sulla testa.Le due placche mancanti furono probabilmente rubate mentre la corona era in pegno agli Umiliati, che la conservavano nel loro convento di Sant’Agata (nell’attuale piazza Carrobiolo a Monza). I documenti successivi al 1300 infatti la descrivono come “piccola”. Nel 1345 essa fu affidata per un secondo restauro all’orafo Antellotto Bracciforte, il quale le diede l’aspetto attuale.

L’identificazione della lamina metallica inserita nella corona con il chiodo della passione di Cristo sembra risalga al XVI secolo. San Carlo Borromeo, che rilanciò la venerazione del Sacro Morso custodito nel duomo di Milano, visitò più volte anche la Corona Ferrea e vi pregò davanti. Nel 1602 Bartolomeo Zucchi affermava con certezza che la corona era il diadema di Costantino e che in essa vi era il sacro chiodo. Un secolo più tardi, però, Ludovico Antonio Muratori esprimeva parere contrario; egli notava tra l’altro che, rispetto alla dimensione di un chiodo romano da crocefissione, la lamina era troppo piccola.Nel frattempo anche le autorità ecclesiastiche esaminarono il problema: finalmente nel 1717 il Papa decretò che, pur in assenza di certezza sull’effettiva presenza del chiodo nella corona, ne era autorizzata la venerazione come reliquia, in base alla tradizione ormai secolare in tal senso.Nel 1993, la corona è stata sottoposta ad analisi scientifiche, e il verdetto è stato che la lamina non sarebbe di ferro, bensì d’argento. Secondo alcuni studiosi, essa fu inserita dal Bracciforte nel 1345 per rinsaldare la corona, che era stata danneggiata dal furto di due placche; gli autori cinquecenteschi, perduta memoria di questo intervento, e sapendo dall’orazione di sant’Ambrogio che nella corona era inserito il sacro chiodo, conclusero che doveva trattarsi della lamina[3].Altri ritengono invece che la corona sia effettivamente il diadema di Costantino, e che con il sacro chiodo fossero stati forgiati due archetti incrociati che venivano usati per agganciare il diadema all’elmo (e non il cerchio che si trova oggi nella parte interna della corona). Quando i bizantini sganciarono il diadema per darlo a Teodorico, essi trattennero anche gli archetti. L’elmo rimase esposto nella chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli, appeso sopra l’altare, fino al saccheggio veneziano del 1204, dopo di che se ne ignora la sorte. In ogni caso la Chiesa continua ad autorizzare la venerazione della reliquia, che sarebbe, secondo l’ipotesi dell’archetto dell’elmo, una reliquia di secondo tipo, cioè che deve la sacralità al contatto con una reliquia di primo tipo (oggetto legato direttamente a una figura venerata)[4][5].

Di chiodi asseriti della Croce, oltre a quello della corona e quello del Duomo di Milano, ne esistono un terzo, conservato nella basilica di Santa Croce in Gerusalemme a Roma, e un quarto, dalla tradizione più dubbia, nel Duomo di Colle Val d’Elsa in provincia di Siena.

Corona_ferrea,_monza

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