CENACOLO E PINACOTECA DI BRERA CON PRANZO PRESSO “L’OSTERIA DELLE CORTI” 18/10/2015

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L’Ultima Cena è un dipinto parietale a tempera grassa (e forse altri leganti oleosi) su intonaco[1] (460×880 cm) di Leonardo da Vinci, databile al 1494-1498 e conservato nell’ex-refettorio rinascimentale del convento adiacente al santuario di Santa Maria delle Grazie a Milano.Si tratta della più famosa rappresentazione dell’Ultima Cena, capolavoro di Leonardo e del Rinascimento italiano in generale. Nonostante ciò l’opera, a causa della singolare tecnica sperimentale utilizzata da Leonardo, incompatibile con l’umidità dell’ambiente, versa da secoli in un cattivo stato di conservazione, che è stato almeno fissato e, per quanto possibile, migliorato nel corso di uno dei più lunghi e capillari restauri della storia, durato dal 1978 al 1999 con le tecniche più all’avanguardia del settore. 

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Dettaglio

Deluso dall’abbandono forzato del progetto del monumento equestre a Francesco Sforza, a cui aveva lavorato quasi dieci anni, Leonardo ricevette però quell’anno un’altra importante commissione da Ludovico il Moro. Il duca di Milano aveva infatti eletto la chiesa domenicana di Santa Maria delle Grazie a luogo di celebrazione della casata Sforza, finanziando importanti lavori di ristrutturazione e abbellimento di tutto il complesso; Donato Bramante aveva appena finito di lavorarvi quando si decise di procedere con la decorazione del refettori].Venne decisa una decorazione tradizionale sui lati minori, rappresentante la Crocifissione e l’Ultima Cena. Alla Crocifissione lavorò Donato Montorfano, che elaborò una scena di impostazione tradizionale, terminata già nel 1495. In questa scena, oggi scarsamente leggibile, Leonardo dovette rappresentare, verso il 1497, i Ritratti dei duchi di Milano con i figli.Sulla parete opposta l’artista avviò l’Ultima Cena (o Cenacolo), che lo risollevò dalle preoccupazioni economiche e nella quale riversò tutte le conoscenze assimilate nel corso di quegli anni. Leonardo realizzò numerosi studi, oggi in parte conservati, come la Testa di Cristo alla Pinacoteca di Brera. La fama del Cenacolo vinciano è testimoniata, oltre che dalle fonti scritte, dalle numerose copie che se ne fecero, sia a grandezza naturale (affreschi, tele e tavole), sia su supporti leggeri, come disegni e incisioni. Queste copie appaiono oggi particolarmente preziose per capire come il dipinto dovesse figurare in origine.Tra le opere a grandezza naturale spicca, per pregio e antichità, la copia del Giampietrino, assistente di Leonardo, opera proveniente dalla Certosa di Pavia (1520 circa), acquistata nel 1821 dalla Royal Academy di Londra, e che, sebbene tagliata nella parte superiore, oggi si trova esposta al Magdalen College di Oxford.Un’altra ancora, leggermente più piccola, è quella attribuita a Marco d’Oggiono a olio su tela (549 × 260 cm, 1520 circa) ora al Musée de la Renaissance nel Castello di Écouen, poco a nord di Parigi, di proprietà del Louvre. Anche il museo dell’Ermitage di San Pietroburgo ne possiede una, attribuita genericamente a un “artista lombardo” del XVI secolo, forse l’unica in cui appare chiaramente il soffitto come doveva essere in origine, con i lacunari contornati da sottili righe colorate.Altre copie sono quella conservata nella chiesa dei Minoriti di Vienna (voluta da Napoleone nel 1809) o quella esposta nel Da Vinci Museum dell’abbazia belga di Tongerlo. In Ticino esiste una copia di un anonimo allievo di Leonardo, nella chiesa parrocchiale di Ponte Capriasca, vicino a Lugano (1550 circa).Appena terminato il dipinto, Leonardo si accorse che la tecnica che aveva utilizzato mostrava subito i suoi gravi difetti: nella parte a sinistra in basso si intravedeva già una piccola crepa. Si trattava solo dell’inizio di un processo di disgregazione che sarebbe continuato inesorabile nel tempo; già una ventina di anni dopo la sua realizzazione, il Cenacolo presentava danni molto gravi, tanto che Vasari, che la vide nel maggio del 1566, scrisse che “non si scorge più se non una macchia abbagliata”. Per Francesco Scannelli, che scriveva nel 1642, dell’originale non era rimasto altro che poche tracce delle figure, e anche quelle tanto confuse che non se ne poteva ricavare alcuna indicazione sul soggetto.

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Le cause che provocarono quel degrado inarrestabile erano legate all’incompatibilità della tecnica utilizzata con l’umidità della parete retrostante, esposta a nord (che è il punto cardinale più facilmente attaccabile dalla condensa) e confinante con le cucine del convento, con frequenti sbalzi di temperatura; lo stesso refettorio era poi interessato dagli effluvi e dai vapori dei cibi distribuiti.Per capire quanto siano stati devastanti i danni basta confrontare l’originale con una delle numerose copie dell’opera, come quella di Giampietrino. L’idea è quella che, ragionevolmente, i colori originali fossero sostanzialmente simili a quelli visibili nella copia, molto più brillanti e accesi.L’opera subì numerosi tentativi di restauro nel tempo, che cercarono di porre rimedio ai danni, stabilizzando le cadute e, spesso, provvedendo a vere e proprie ridipinture. Si tentò soprattutto di evidenziare i contorni offuscati, per recuperare la leggibilità generale, e di tamponare i fenomeni di degrado. Kenneth Clark, nell’introduzione al catalogo della mostra Studi per il Cenacolo[10] scrisse che in molti casi gli apostoli che vediamo oggi non sono più quelli dipinti da Leonardo: «Pietro, con la fronte bassa da criminale, è una delle figure che disturbano di più nell’intera composizione; ma le copie mostrano che la sua testa era in origine piegata indietro e vista di scorcio. Il restauratore non è stato capace di seguire questo difficile brano di disegno e così ne è uscita una deformità. Lo stesso insuccesso si verifica quando si tratta di avere a che fare con pose non comuni come quelle delle teste di Giuda e di Andrea. Le copie mostrano che Giuda era prima in profìl perdu, un fatto confermato dal disegno di Leonardo a Windsor [cat. 13]. Il restauratore l’ha rigirato, collocandolo in netto profilo e pregiudicandone così l’effetto sinistro. Andrea era quasi di profilo; il restauratore l’ha portato a una veduta convenzionale di tre quarti. E inoltre ha trasformato il dignitoso vecchio in un tipo spaventoso di ipocrisia scimmiesca. La testa di Giacomo Minore è interamente opera del restauratore, che con essa dà la misura della propria inettitudine».All’inizio del XIX secolo le truppe napoleoniche trasformarono il refettorio in bivacco e stalla. Negli anni dieci del Novecento il pittore Luigi Cavenaghi reincollò le particelle che si andavano staccando dal muro.Danni ancora più gravi vennero causati durante la seconda guerra mondiale, quando il convento venne bombardato nell’agosto del 1943: venne distrutta la volta del refettorio, ma il Cenacolo rimase miracolosamente salvo tra cumuli di macerie, protetto solo da un breve tetto e da una difesa di sacchi di sabbia, rimanendo esposto per vari giorni ai rischi causati dagli agenti atmosferici.Nel 1977, dopo molti studi e ricerche, prese il via un grande e delicato progetto di restauro. Un’operazione destinata a durare più di un ventennio, e a mobilitare scienziati, critici d’arte e restauratori di tutto il mondo. La superficie del Cenacolo era ormai ovunque scrostata e lesionata; in milioni di interstizi microscopici si era infilata la polvere, trattenendo l’umidità delle pareti, e creando così le condizioni per la graduale e inesorabile scomparsa del dipinto.Nel lavoro di ripulitura ci si è resi conto che il Cenacolo era stato in parte spalmato di cera per essere predisposto al distacco: un distacco, per fortuna mai eseguito. L’impiastro di colle, resine, polvere, solventi e vernici, sovrapposte nei secoli in maniera disomogenea, avevano peggiorato notevolmente le condizioni, già di per sé molto delicate, della pellicola pittorica, consegnando ormai alla fine degli anni settanta un Cenacolo che sembrava ormai irreparabilmente compromesso. Solo una meticolosa e rigorosa opera di restauro, sostenuta da rilievi ed esami tecnologici approfonditi, ha permesso di restituire all’umanità uno dei capolavori della storia dell’arte più travagliati.La campagna ha permesso di documentare e consolidare le tracce autografe nel dipinto, mettendo anche in luce tutti gli aspetti della tecnica usata. Una volta eliminate le ridipinture, e ritrovata l’opera originale di Leonardo, i restauratori si erano posti il problema di come riempire le parti mancanti[senza fonte]. In un primo tempo le zone mancanti erano state riempite semplicemente con un colore neutro; poi si è deciso [senza fonte] di dar loro dei colori leonardeschi, basati sui frammenti ritrovati, e anche sulle copie d’epoca del Cenacolo. Oggi l’opera ha ritrovato in alcuni dettagli una luminosità e freschezza cromatica finora insospettate.

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Tra le tante scoperte insperate, si è trovato il buco di un chiodo piantato nella testa del Cristo: qui Leonardo aveva appeso i fili per disegnare l’andamento di tutta la prospettiva (punto di fuga). Si sono riscoperti anche i piedi degli apostoli sotto il tavolo, ma non quelli di Cristo: questa parte fu infatti distrutta nel XVII secolo dall’apertura di una porta che serviva ai frati per collegare il refettorio con la cucina.Tra i particolari più deteriorati e irrecuperabili si segnala la parte inferiore del viso di Giovanni dove, come scrive la restauratrice Pinin Brambilla, le narici e la bocca erano ormai “ridotte a piccoli tratti scuri”. Pure il soffitto della scatola prospettica che vediamo oggi non è l’originale dipinto da Leonardo ma frutto di un totale rifacimento settecentesco che sempre secondo la restauratrice “non rispetta il sapore e il ritmo leonardeschi”. Dell’originale rimane traccia solo in una sottile fascia a destra, che evidenzia come i cassettoni in origine fossero più larghi, profondi e caratterizzati da modanature con sottili fasce rosse e lacunari dal fondo blu-azzurro[13].L’opera è stata dichiarata nel 1980 patrimonio dell’umanità dall’Unesco, e insieme ad essa vengono protetti anche la chiesa e il limitrofo convento domenicano (la motivazione della nomina dei due edifici fa esplicita menzione del dipinto).

 

Ricostruzione dei personaggi

« Dette queste cose, Gesù si commosse profondamente e dichiarò: «In verità, in verità vi dico: uno di voi mi tradirà». I discepoli si guardarono gli uni gli altri, non sapendo di chi parlasse. Ora uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece un cenno e gli disse: «Dì, chi è colui a cui si riferisce?». Ed egli reclinandosi così sul petto di Gesù, gli disse: «Signore, chi è?». Rispose allora Gesù: «È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò». E intinto il boccone, lo prese e lo diede a Giuda Iscariota, figlio di Simone. »   (Giovanni 13, 21-26 Gv13,21-Gv13,26)                           Il dipinto si basa sul Vangelo di Giovanni 13:21, nel quale Gesù annuncia che verrà tradito da uno dei suoi apostoli. L’opera si basa sulla tradizione dei cenacoli di Firenze, ma come già Leonardo aveva fatto con l’Adorazione dei Magi, l’iconografia venne profondamente rinnovata alla ricerca del significato più intimo ed emotivamente rilevante dell’episodio religioso. Leonardo infatti studiò i “moti dell’animo” degli apostoli sorpresi e sconcertati all’annuncio dell’imminente tradimento di uno di loro.Dentro la scatola prospettica della stanza, rischiarata da tre finestre sul retro e con l’illuminazione frontale da sinistra che corrispondeva all’antica finestra reale del refettorio, Leonardo ambientò in primo piano la lunga tavola della cena, con al centro la figura isolata di Cristo, dalla forma pressoché piramidale per le braccia distese. Egli ha il capo reclinato, gli occhi socchiusi e la bocca appena discostata, come se avesse appena finito di pronunciare la fatidica frase.Col suo gesto di quieta rassegnazione, Gesù costituisce l’asse centrale della scena compositiva: non solo delle linee dell’architettura (evidente nella fuga di riquadri scuri ai lati, forse arazzi), ma anche dei gesti e delle linee di forza degli apostoli. Ogni particolare è curato con estrema precisione e le pietanze e le stoviglie presenti sulla tavola concorrono a bilanciare la composizione.Dal punto di vista geometrico l’ambiente, pur essendo semplice, è calibrato. Attraverso elementari espedienti prospettici (la quadratura del pavimento, il soffitto a cassettoni, gli arazzi appesi alle pareti, le tre finestre del fondo e la posizione della tavola) si ottiene l’effetto di sfondamento della parete su cui si trova il dipinto, tale da mostrarlo come un ambiente nell’ambiente del refettorio stesso, una sorta di raffinato trompe l’oeil. Secondo uno studio recente, il paesaggio che si intravede dalle finestre potrebbe essere un luogo ben preciso, appartenente al territorio dell’alto Lario.

Attorno a Cristo gli apostoli sono disposti in quattro gruppi di tre, diversi, ma equilibrati simmetricamente. L’effetto che ne deriva è quello di successive ondate che si propagano a partire dalla figura del Cristo, come un’eco delle sue parole che si allontana generando stati d’animo più forti ed espressivi negli apostoli vicini, più moderati e increduli in quelli alle estremità. Ogni singola condizione psicologica è approfondita, con le sue peculiari manifestazioni esteriori (i “moti dell’animo”), senza però compromettere mai la percezione unitaria dell’insieme.Pietro (quarto da sinistra) con la mano destra impugna il coltello, come in moltissime altre raffigurazioni rinascimentali dell’ultima cena, e, chinandosi impetuosamente in avanti, con la sinistra scuote Giovanni chiedendogli “Dì, chi è colui a cui si riferisce?” (Gv. 13,24). Giuda, davanti a lui, stringe la borsa con i soldi (“tenendo Giuda la cassa” si legge in Gv. 13,29), indietreggia con aria colpevole e nell’agitazione rovescia la saliera. All’estrema destra del tavolo, da sinistra a destra, Matteo, Giuda Taddeo e Simone esprimono con gesti concitati il loro smarrimento e la loro incredulità. Giacomo il Maggiore (quinto da destra) spalanca le braccia attonito; vicino a lui Filippo porta le mani al petto, protestando la sua devozione e la sua innocenza.La probabilità che certi particolari della composizione possano essere stati suggeriti dai domenicani (forse dallo stesso priore Vincenzo Bandello) è data dal fatto che questo ordine religioso dava grande importanza all’idea del libero arbitrio: l’uomo non sarebbe predestinato al bene o al male ma può scegliere tra le due possibilità.[15] Giuda infatti nel dipinto di Leonardo è raffigurato in modo differente dalla grande maggioranza delle ultime cene dell’epoca, dove lo si vede da solo, al di qua del tavolo. Leonardo raffigura invece Giuda assieme agli altri apostoli, e così aveva fatto pure il domenicano Beato Angelico, nell’Ultima Cena dell’Armadio degli Argenti esposta al Museo di San Marco a Firenze, lasciandogli l’aureola al pari degli altri. Altra evidente differenza tra l’opera di Leonardo e quasi tutte le ultime cene precedenti è il fatto che Giovanni non è adagiato nel grembo o sul petto di Gesù (Gv. 13,25) ma è separato da lui, nell’atto di ascoltare la domanda di Pietro, lasciando così Gesù solo al centro della scena.Che la scena raffigurata da Leonardo derivi dal quarto vangelo è intuibile, oltre che dal “dialogo” tra Pietro e Giovanni, dalla mancanza del calice sulla tavola. Diversamente dagli altri tre, detti vangeli sinottici, nel quarto non è descritta la scena che viene ricordata durante la messa al momento della consacrazione: “Poi prese il calice e, dopo aver reso grazie, lo diede loro, dicendo: Bevetene tutti, perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti, in remissione dei peccati” (Matteo 26,27). Giovanni, dopo l’annuncio del tradimento, scrive invece così: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv. 13,34).

Infine la figura di Tommaso, subito a sinistra di Gesù col dito puntato verso l’alto, è anatomicamente sproporzionata, con un braccio troppo lungo, e pare collocata nell’unico spazio disponibile in modo un po’ posticcio. Secondo recenti scoperte sui disegni preparatori dell’opera infatti, Leonardo, per ricordarsi tutti i nomi degli apostoli li aveva dovuti appuntare sotto ciascuna figura, e quindi si suppone che l’artista avesse dimenticato di inserire l’apostolo e che abbia dovuto rimediare di corsa.Sopra l’Ultima Cena si trovano, oltre una cornice baccellata all’antica, cinque lunette, in larga parte autografe. Esse contengono imprese degli Sforza entro ghirlande di frutta, fiori e foglie, e iscrizioni su sfondo rosso; la lunetta centrale in particolare, di dimensione maggiore di quelle laterali, è in uno stato di conservazione buono, con una precisa descrizione delle specie botaniche.In questa si è scoperto,grazie ad un restauro digitale del dipinto, effettuato dal centro ricerche Leonardo3, anche in base alla scoperta di alcuni bozzetti inediti dell’opera,quello che si ritiene essere il drago simbolo della famiglia nobiliare, il famoso Biscione. Secondo Mario Taddei, il curatore del progetto,sulla base del ritrovamento del disegno preparatorio che lo raffigura,lo si potrebbe invece interpretare come un serpente che striscia verso l’alto quasi a voler uscire dal dipinto. Un serpente che si trova sospeso esattamente sopra la testa del Gesù.

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Una diversa lettura del dipinto è richiamata dal popolare romanzo giallo Il codice da Vinci dello scrittore Dan Brown, che vuole dare un significato esoterico al dipinto. Così, il discepolo alla destra di Gesù Cristo sarebbe Maria Maddalena. Alcuni particolari del dipinto (l’opposta colorazione degli abiti di Gesù e della presunta Maddalena, la mano posata sul collo della presunta donna, la presenza di un braccio con la mano che impugna un coltello) sono utilizzati per cercare di dimostrare che Maria Maddalena fosse l’amante di Gesù, ipotesi priva di alcuna prova o fondamento.Questa interpretazione del dipinto è confutabile attraverso l’analisi dell’opera, e leggendo il vangelo di Giovanni. Il coltello è infatti impugnato da Pietro, così come in innumerevoli altri dipinti rinascimentali con questo stesso soggetto. In questo caso Pietro tiene il braccio piegato dietro la schiena, col polso appoggiato all’anca, posa riscontrabile in tutte le copie dell’Ultima cena e in uno schizzo dello stesso Leonardo. La mano di Pietro posata sulla spalla di Giovanni è il gesto narrato nello stesso quarto vangelo, in cui Pietro chiede all’apostolo più giovane chi possa essere il traditore (Gv 13:24). L’aspetto di Giovanni infine fa parte dell’iconografia dell’epoca, in cui si rappresentava l’apostolo “prediletto” come un adolescente dai capelli lunghi e dai lineamenti dolci.

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TOUR DELL’UMBRIA 01-04/10/2015 CON SOGGIORNO ALL’ETRUSCAN CHOCOHOTEL

A GENTILE RICHIESTA…..

GUBBIO

La città di Gubbio è strettamente legata alla storia di san Francesco, in particolar modo ad un evento della sua vita citato nel XXI capitolo dei Fioretti di San Francesco, cioè l’incontro con il Lupo avvenuto nei pressi della chiesa di Santa Maria della Vittoria, detta della Vittorina; l’episodio miracoloso è uno dei più conosciuti al mondo e sulla veridicità storica si è dibattuto a lungo: è possibile che il lupo, o la lupa, sia metafora di un bandito riconciliato con la città da Francesco, ma moltissimi studiosi parlano di un animale vero. Scrivono le fonti francescane: “Francesco gli fa il segno della santissima croce, e chiamollo a sè e disse così «Vieni qui, frate lupo, io ti comando dalla parte di Cristo che tu non facci male né a me né a persona». Mirabile cosa a dire! Immantanente che santo Francesco ebbe fatta la croce, il lupo terribile chiuse la bocca e ristette di correre; e fatto il comandamento, venne mansuetamente come agnello, e gittossi alli piedi di santo Francesco a giacere.”

A Gubbio, Francesco si rifugiò dopo essersi allontanato da Assisi, trovando asilo presso la famiglia degli Spadalonga, e proprio qui avvenne la vera conversione, in quanto l’aver vissuto insieme ai poveri e ai lebbrosi del posto, cambiò radicalmente la sua vita. Proprio per questo motivo, la città è attraversata da diversi sentieri percorsi ogni anno da migliaia di pellegrini, tutti nel nome del Santo. Uno di questi è chiamato il Cammino di Assisi.

Ceduta alla Chiesa con le donazioni di Pipino il Breve e Carlo Magno, la città, pur assoggettata ai vescovi, si costituì inLibero comune di fazione ghibellina e, nell’XI secolo, iniziò una politica espansionistica. Distrutta Luceoli, posta sulla via Flaminia nei pressi dell’odierna Cantiano, il suo vasto territorio fu inglobato in quello eugubino e, in posizione più strategica, fu fondata Pergola (poi città autonoma dal 1752). La creazione di Pergola fu considerata pericolosa dalla vicina città di Cagli, che già si sentiva minacciata da Gubbio, in quanto gli eugubini avevano ottenuto la concessione imperiale sullo strategico castello di Cantiano, controllando di fatto, agevolmente, i collegamenti sulla via Flaminia; ne nacquero una serie di scontri che coinvolsero, in forza delle alleanze promosse dai cagliesi, anche Perugia. Le continue guerre di confine portarono Gubbio ad avere più di cento castelli sotto il suo dominio ma, nello stesso tempo, ad entrare in forte conflitto con Perugia, allarmata dal suo espansionismo.

Nel 1151 undici città confederate, capeggiate da Perugia, attaccarono Gubbio con l’intento di spazzarla via. La città resse all’urto ed il seguente contrattacco portò ad una schiacciante vittoria degli assediati. L’evento fu attribuito all’intervento ritenuto miracoloso di sant’Ubaldo (10801160), allora vescovo della città. La potenza militare e commerciale che Gubbio andava sempre più ostentando portò ad altri scontri con Perugia, finché nel 1257 i perugini occuparono parte dei territori eugubini, che furono poi restituiti con il trattato di pace del 1273.

Nel X secolo Gubbio prosperò in pace, crescendo dal punto di vista sia urbanistico, sia economico, sia demografico. Nel1263, i guelfi presero il potere, che detennero fino al 1350 tranne brevi parentesi, come quando, nel 1300, Gubbio fu occupata dalle truppe ghibelline del conte di Ghiacciolo (Uberto Malatesta) e di Uguccione della Faggiuola. Infine, caduta sotto la signoria di Giovanni Gabrielli, nel 1354 fu assediata ed espugnata dal cardinale Albornoz, legato pontificio, che l’assoggettò alla Chiesa concedendo, però, alla città gli antichi privilegi e statuti propri. La pace fu di breve durata poiché il governo pontificio non mantenne le promesse fatte dal cardinale Albornoz: gli eugubini nel 1376 insorsero e instaurarono un autogoverno. Pochi anni dopo, nel 1381, il vescovo Gabriello Gabrielli, appoggiato dal papa, si autoproclamò signore di Agobbio, nome medioevale di Gubbio, provocando la ribellione dei cittadini che, ridotti alla fame, nel 1384 si levarono in armi contro il vescovo. Impossibilitati a resistere al battagliero vescovo, che non voleva perdere il dominio sulla città, gli eugubini si “consegnarono” spontaneamente ai Montefeltro, duchi di Urbino, perdendo così il titolo di libero comune, ma ottenendo un lungo periodo di tranquillità. I Montefeltro, signori amanti dell’arte, restituirono a Gubbio i privilegi e gli ordinamenti civili, la città tornò così a fiorire culturalmente e artisticamente; in quel periodo fu ricostruito il Palazzo dei Consoli. Salvo brevi interruzioni per le signorie dei Malatesta e diCesare Borgia, la città rimase ai Montefeltro fino al 1508 quando subentrarono, nel dominio della città, i Della Rovere, che lo tennero fino al 1631 quando, con la morte di Francesco Maria II Della Rovere, ultimo erede della casata, tutti i beni e tutti i feudi passarono, come da volontà testamentaria, allo stato pontificio.

Nel 1860 Gubbio fu annessa al Regno d’Italia e, per effetto del decreto Minghetti, il 22 dicembre 1860 fu distaccata dalle Marche e aggregata all’Umbria, distaccandola dalla Delegazione apostolica di Urbino e Pesaro e aggregandola alla neo-costituita Provincia di Perugia.

A seguito della depressione economica del 1873-1895, conseguente alla crisi agraria che si ebbe in Italia verso il 1880, numerosi abitanti emigrarono alla ricerca di lavoro e migliori condizioni di vita. Tale fenomeno è continuato per circa un secolo, in varie ondate condizionate dalla prima e dalla seconda guerra mondiale, per esaurirsi negli anni settanta. Le mete furono essenzialmente i paesi europei, quali ad esempio Lussemburgo, Francia, Belgio, Svizzera, Germania, i paesi dell’America del Nord (Canada e Stati Uniti) e dell’America del Sud (Argentina e Brasile), e anche Sudafrica e Australia.

Durante la seconda guerra mondiale, il 22 giugno 1944, a seguito dell’assassinio di 2 ufficiali medici germanici in un bar cittadino, i tedeschi attuarono una ferocerappresaglia, rastrellando e successivamente trucidando, a colpi di mitragliatrice, 40 cittadini innocenti, nei pressi della chiesa della Madonna del Prato, dove oggi un mausoleo ricorda i “40 martiri”. Inoltre, per circa trenta giorni, fino al 25 luglio 1944, giorno della liberazione, la città fu duramente bombardata dalle artiglierie tedesche che, dai monti circostanti, battevano la vallata per contrastare l’avanzata delle truppe di liberazione.

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ASSISI

Le tracce più antiche della presenza umana nel territorio assisiate risalgono al [Neolitico].Numerosi reperti archeologici indicano che Assisi trae le sue origini da un piccolo villaggio abitato dagli Umbri già nel periodo villanoviano (IX secolo a.C.|IX – VIII secolo a.C.). Come ci dimostrano i vari reperti archeologici rinvenuti, gli Umbri intrattenevano profondi rapporti (soprattutto commerciali) con i vicini Etruschi, stanziati sulla sponda occidentale del Tevere, dai quali differivano, però, per lingua e cultura.I Romani nel 295 a.C., con la battaglia del Sentino, imposero definitivamente il loro dominio anche nell’Italia Centrale. La città umbra ebbe il nome di Asisium e fu monumentalizzata a partire dal II secolo a.C. Nell’89 a.C. divenne municipium e fu un importante centro economico e sociale dell’Impero romano. Il suo toponimo ha origini prelatine, e conservando un’incerta etimologia, viene interpretato in due differenti modi. Città del falco, o dell’astore oppure dalla base latina ossa ovvero torrente con ovvio riferimento al fiume Assino.Nel corso del III secolo, per l’azione di san Rufino, vescovo e martire, inizia a diffondersi il cristianesimo.Con il crollo dell’Impero romano anche Assisi conobbe la buia età delle invasioni barbariche e, nel 545, fu saccheggiata dai Goti di Totila. Conquistata dai Bizantini, passò poco tempo dopo (568) sotto il dominio longobardo e venne annessa al Ducato di Spoleto, del quale condivise le sorti fino all’inizio del XII secolo.Dopo un periodo di guerre, nel 1174 fu assediata e conquistata da Federico Barbarossa, che diede l’investitura della città al duca Corrado di Lutzen, detto anche Corrado di Urslingen: Assisi divenne dominio imperiale, ma sollevazioni popolari (1198) inaugurarono ben presto l’epoca comunale, non senza lotte interne e guerre con la vicina Perugia. Tra 1181 e il 1182, nasce ad Assisi Francesco – figlio di Pietro di Bernardone e Madonna Pica – il futuro santo che, con la sua opera, segnerà la storia del luogo e dell’umanità.Nel 1198 il popolo di Assisi, stanco delle prepotenze del duca di Lutzen, si ribellò scacciandolo dalla città. Durante la fine della prima metà del Duecento l’Assisi guelfa subì vari assedi da parte delle truppe saracene e tartare facenti parte del grande esercito di Federico II di Svevia. Le truppe imperiali devastarono a più riprese il contado ma la città grazie alla valenza delle sue milizie ed al carisma di Santa Chiara resistette alle incursioni. Negli anni a seguire Assisi vide alternarsi al controllo della città guelfi e ghibellini. Successivamente la città passò sotto il dominio della Chiesa, dei Perugini, di Gian Galeazzo Visconti, dei Montefeltro, di Braccio Fortebraccio da Montone, passando infine sotto il controllo di Francesco Sforza.Nel novembre del 1442 Assisi, difesa in quel periodo da Alessandro Sforza, subisce l’assedio delle truppe comandate dal Piccinino. Dopo molti giorni di vani tentativi le truppe assedianti, anche grazie all’aiuto di un frate traditore, riescono a penetrare all’interno della cinta di mura. Assisi viene pesantemente devastata e saccheggiata ma il Piccinino si oppone comunque alla completa distruzione della città rifiutando i 15000 fiorini offerti dai perugini.[4] Le fazioni de Sopra (schierati con i Ghibellini) e dei Fiumi (della Parte de Sotto legati ai Guelfi) si fronteggiarono fino al XVI secolo quando la conquista dell’Umbria da parte di papa Paolo III restituì alla città un periodo di pace e tranquillità.A partire dal XVII secolo, grazie alla fondazione di istituti ed accademie, riprende con grande fervore l’attività culturale, interrotta dal periodo delle guerre napoleoniche (1799), quando le truppe francesi al comando di Napoleone Bonaparte saccheggiarono la città e molte opere d’arte.Nel 1860, con plebiscito unanime, aderì al nascente Stato italiano. L’unificazione permetterà alla città di aprirsi progressivamente all’esterno, grazie anche alla costruzione dello scalo ferroviario. Con il ritrovamento dei corpi di San Francesco (1818) e Santa Chiara (1850), Assisi diventa meta privilegiata di pellegrinaggi; il turismo religioso dette un forte incremento alla rinascita dell’economia locale.Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo seguente all’8 settembre 1943 e all’occupazione tedesca, Assisi è letteralmente invasa dai profughi, tra i quali oltre 300 ebrei. Il vescovo mons.Giuseppe Placido Nicolini – coadiuvato dal segretario, don Aldo Brunacci, e dal guardiano del Convento di San Damiano, padre Rufino Niccacci – trasforma Assisi in uno dei centri principali della resistenza civile italiana all’Olocausto. Travestiti da frati e suore, nascosti nei sotterranei e nelle cantine, mimetizzati tra gli sfollati, provvisti di documenti falsi, gli ebrei rifugiatisi ad Assisi sono protetti da una vasta rete di solidarietà che si estende anche ad altre zone dell’Umbria ed ha contatti, anche attraverso il ciclista Gino Bartali, con le centrali di resistenza e finanziamento della DELASEM in Liguria e Toscana. Il compito è arduo. Tra i rifugiati ci sono donne, bambini, vecchi, ammalati, che necessitano di cure ed assistenza per le necessità quotidiane. Si organizza persino una scuola dove i bambini ebrei possano ricevere istruzione religiosa ebraica. Grazie anche alla complicità del colonnello tedesco Valentin Müller, che dichiarerà Assisi una zona franca ospedaliera, nessun ebreo sarà deportato da Assisi.[5] Il vescovo Giuseppe Placido Nicolini, don Aldo Brunacci e padre Rufino Niccacci, ricevono nel dopoguerra l’alta onorificenza di giusti tra le nazioni dall’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme, unitamente a Luigi e Trento Brizi che nel loro piccolo negozio di souvenir vicino a piazza Santa Chiara hanno provveduto alla stampa di tanti falsi documenti di identità.[6] Nel 1985 il film Assisi Underground di Alexander Ramati ricostruisce le vicende e i protagonisti di quegli anni. Nel 2004 la Medaglia d’oro al Valor Civile è conferita alla città di Assisi per l’impegno civile dimostrato dall’intera popolazione.Il 27 ottobre 1987, su invito del papa Giovanni Paolo II, i principali rappresentanti delle religioni del mondo si riunirono ad Assisi per un incontro di preghiera in nome di san Francesco, profeta della pace come lo definì lo stesso pontefice.

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PERUGIA E SAN BEVIGNATE

I primi insediamenti conosciuti risalgonoai secoli XI e X a.C., con la presenza di villaggi nei pressi delle falde dell’altura perugina e a partire dal sec. VIII anche sulla sommità del colle dove sorge la città. Il rapido sviluppo di Perugia è favorito dalla posizione dominante rispetto all’arteria del fiume Tevere e dalla posizione di confine con le popolazioni Umbre.Il nucleo di Perugia si forma attorno alla seconda metà del VI secolo a.C., dalla disposizione delle necropoli etrusche abbiamo una testimonianza indiretta dell’espansione del primo tessuto urbano. Perugia diventa in breve una delle più importanti città etrusche e una delle 12 lucumonie, dotandosi nel IV secolo a.C. di una cinta muraria ancor oggi visibile.Con la battaglia di Sentino (295 a.C.), Perusia e gran parte del resto dell’Umbria entrano nell’orbita romana, conservando l’uso dell’etrusco, documentato in città fino a tarda età repubblicana e mantenendo una sia pur limitata autonomia municipale. Durante la II guerra punica la città si mantiene fedele a Roma e dà rifugio ai Romani sconfitti nella Battaglia del Lago Trasimeno (217 a.C.).A partire dal I secolo a.C., in seguito alla guerra sociale, Perugia si integra con Roma, con la concessione nell’89 a.C. della cittadinanza. La città è uno degli scenari della Guerra civile tra Ottaviano e la fazione di Marco Antonio, con protagonista il fratello di quest’ultimo, Lucio. Viene incendiata nel 41 a.C. durante il Bellum Perusinum. Qualche anno dopo l’imperatore Augusto ricostruisce la città e le permette di fregiarsi del titolo di Augusta Perusia. Rimodellata secondo stilemi romani, Perugia si espande mantenendo nel nucleo centrale l’assetto viario etrusco.In età imperiale la città si sviluppa oltre la cinta etrusca. Nella seconda metà del III secolo d.C. l’imperatore Vibio Treboniano Gallo, nato a Perugia, le dà lo ius coloniae.Importante centro di collegamento tra la via Amerina e la Flaminia, nel 493 Perugia viene conquistata dagli Ostrogoti di Teodorico. Nel 537 le truppe bizantine di Belisario si scontrano con quelle Ostrogote di Vitige proprio nei pressi di Perugia. Nel 548 Totila espugna dopo un lungo assedio la città ed uccide il vescovo Ercolano. Con la fine degli Ostrogoti e sino all’VIII secolo la città resterà sotto il dominio bizantino, eccettuati due brevi periodi di occupazione da parte dei longobardi sul finire del VI secolo.A partire dalla seconda metà dell’VIII secolo Perugia entra nella sfera di influenza del Papato, a sua volta vincolato in vario modo all’Impero Carolingio, ed è retta nei due secoli successivi da un Governo vescovile.Nel 1139 si ha la prima attestazione del Governo dei Consoli e della nascita del Comune. Agli inizi del XII secolo il potere è diviso tra i Consoli, un’assemblea generale (l’Arengo) ed un consiglio minore. Nella seconda metà del secolo Perugia ha un’ampia sfera d’influenza nel contado circostante, avendo espanso i propri territori verso Gubbio e Città di Castello a nord e verso Città della Pieve, il lago Trasimeno e la Val di Chiana a ovest-sudovest. Nel 1198 la città accetta la protezione di Innocenzo III, rimanendo guelfa. Nel 1286 si contano ben 41 arti.Nel XIII secolo il Comune estende la sua sfera d’influenza su Assisi (1205) e Foligno (1289) e conosce un imponente sviluppo urbano che si protrarrà fino alla metà circa del Trecento. La città è amministrata all’epoca da un governo mercantile, esercitato dai Priori, eletti fra gli iscritti alle arti, e con sede nel Palazzo dei Priori (XIII-XV secolo). Nel 1308 viene istituita l’Università, mentre nel 1342 viene redatto lo Statuto in volgare. Nonostante la peste nera e le sue vittime, Perugia dà ancora delle prove di forza nel 1352 e nel 1358, quando sconfigge prima Bettona, distruggendola, e poi Siena e Cortona (Battaglia di Torrita).Nel 1370 Perugia torna sotto il pieno controllo della Chiesa a seguito della sconfitta nella guerra contro Urbano V. A causa delle lotte interne e del tentativo di sottrarsi al dominio papale, si succedono diverse signorie (Michelotti, Visconti, Fortebracci). Con Braccio Fortebracci da Montone si realizzano importanti opere pubbliche come, ad esempio, la residenza di Braccio in piazza, della quale rimangono solo le logge, o il Sopramuro. Assumerà forme di Signoria anche il dominio sulla città della famiglia Baglioni, tra il 1438 e gli inizi del XVI secolo.Nel XV secolo e nei primi decenni del secolo successivo, la città si impone come un importante centro artistico (basti pensare al Pinturicchio e al pievese Perugino) e culturale (fra i tanti che riceveranno la propria formazione a Perugia ci saranno anche il grande Raffaello Sanzio e Pietro Aretino).Nel 1540, a seguito di una sfortunata guerra contro Paolo III Farnese, la città perde le sue libertà civiche e la sua secolare autonomia e passa nuovamente alle dirette dipendenze dello Stato della Chiesa che obbliga la cittadinanza a costruire l’imponente Rocca Paolina, dove si insedia una guarnigione pontificia.A partire dalla metà del XVI secolo e fino al momento della sua ricongiunzione all’Italia (1860), Perugia vivrà un lungo periodo di stagnazione demografica e economica, omologandosi al resto delle province pontificie. Purtuttavia, sotto il profilo architettonico e artistico, la città continuerà ad arricchirsi di edifici di pregio e ad avvalersi dell’opera di una serie di esecutori di alto livello professionale. Sono di questo periodo molte delle residenze patrizie che al giorno d’oggi abbelliscono Perugia (fra cui i palazzi Donini, Della Penna, Gallenga-Stuart e Conestabile della Staffa) e alcune prestigiose chiese barocche, prima fra tutte quella dedicata a San Filippo Neri.Il 20 giugno del 1859 si consumano le cosiddette “stragi di Perugia”, perpetrate dai reggimenti svizzeri inviati da Pio IX contro i patrioti cittadini che si erano ribellati al dominio dello Stato della Chiesa. Il 14 settembre 1860 le truppe piemontesi, 15.000 uomini al comando del generale Fanti, riescono a penetrare nella città[5] e a conquistarla, dopo aver costretto alla resa l’ultima guarnigione di soldati svizzeri asserragliata nella Rocca Paolina. In seguito quindi alla battaglia di Castelfidardo (18 settembre), tutti i territori di Umbria e Marche furono annessi al Regno di Sardegna. L’annessione verrà ufficializzata con il plebiscito del 4 novembre 1860.Dopo l’Unità d’Italia (1861), il nuovo Stato italiano privilegerà proprio Perugia come capoluogo di una vastissima provincia, che si estende fino alla Sabina. Solo qualche decennio dopo, negli anni venti del XX secolo, tale territorio verrà ridimensionato: Perugia resta il capoluogo della regione, ma vengono sanciti il passaggio della Sabina al Lazio, e la costituzione della nuova provincia umbra di Terni, determinando così il definitivo assetto geografico e amministrativo della regione Umbria, tuttora vigente.Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo dell’occupazione tedesca e della Repubblica Sociale Italiana, le operazioni clandestine di soccorso agli ebrei perseguitati sono coordinate a Perugia da don Federico Vincenti (1885-1955), parroco della chiesa di Sant’Andrea a Porta Santa Susanna, in collegamento con padre Aldo Brunacci e la DELASEM di Assisi. Per questo impegno di solidarietà, il 16 luglio 1997, l’Istituto Yad Vashem di Gerusalemme ha conferito a don Federico Vincenti l’alta onorificenza dei giusti tra le nazioni[6].Il 20 giugno 1944, pochi giorni dopo l’abbandono della zona da parte dei soldati tedeschi, entrano in città, da Porta San Pietro, le truppe alleate britanniche.Il 24 settembre 1961, promossa dall’intellettuale antifascista Aldo Capitini, venne organizzata la prima Marcia per la pace Perugia-Assisi.

 

SAN BEVIGNATE

San Bevignate è un complesso architettonico templare, chiesa sconsacrata che si trova a Perugia in via Enrico dal Pozzo.La vicenda della chiesa si intreccia profondamente con quella dell’ordine dei templari. San Bevignate, definito “il santo misterioso di Perugia”, fu un eremita locale, della cui esistenza non si hanno prove certe, che catalizzò un complesso intreccio di fatti religiosi e civili sviluppatisi a Perugia intorno alla metà del Duecento. Il culto di San Bevignate culminava nel 1453 con una cosiddetta “canonizzazione laica” effettuata da parte di autorità politiche del tempo anche per andare incontro alle sempre più pressanti richieste della cittadinanza perugina che richiedeva a gran voce la santificazione del misterioso eremita e celebrarne così la festa il 14 maggio. Bevignate è protagonista della Lezenda bolognese di Fra Raniero Fasani all’interno della quale è riconosciuto come colui il quale introdusse a Perugia le processioni penitenziali, dette generalis devotio, dei Flagellanti e dei Disciplinati. Tali riti si diffusero presto nell’intera Italia centro-settentrionale e nella città di Roma. La stessa costruzione del tempio è frutto di varie componenti:

 

la “grande devozione” dei disciplinati o flagellanti, un movimento partito da Perugia nel 1260 e diffusosi in tutta Italia;

il programma del “popolo”, il nuovo ceto di governo della città che intendeva erigere una “propria” Chiesa e che avrebbe voluto disporre di un “proprio” santo (ma, nonostante i suoi sforzi, Bevignate non fu mai canonizzato);

l’esistenza nell’area di una ricca molteplicità di esperienze eremitiche (dal “mitico” san Bevignate a Raniero Fasani, iniziatore del movimento dei disciplinati, a molti altri ancora);

l’iniziativa dei Templari, rivelatasi infine decisiva, di dotarsi di un proprio tempio in sostituzione del vecchio insediamento di San Giustino d’Arna da cui furono scacciati nel 1277.

L’edificio risulta in costruzione tra il 1256 e il 1262 e fu poi Bonvicino, un frate cavaliere assai influente durante i pontificati di Gregorio IX, Innocenzo IV e Alessandro IV, a concretizzare il progetto dei Templari. Lo stesso Bonvicino provvide ad inviare una lettera alle autorità cittadine intitolatata super aedificatione ecclesiae Sancti Benvegnati. Nel 1312, con la soppressione dell’Ordine templare, il monastero passò ai cavalieri di San Giovanni di Gerusalemme. Nel 1324 Ricco di Corbolo, un mercante di Perugia, acquistò tutto il complesso e vi insediò una comunità monastica femminile per la moglie Caterina, la figlia Coluccia ed altre 23 monache, posta sotto la regola dell’Ordine di San Giovanni. Nel 1517, per problemi economici, le monache furono costrette ad abbandonare il monastero che ritornò in possesso dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Da quella data la chiesa perde progressivamente d’importanza e nel 1860, con la soppressione di vari enti religiosi, la chiesa diviene proprietà del Comune ed è definitivamente secolarizzata.La tipologia del tempio, nato come luogo di culto di un ordine militare, mostra strette affinità con le spoglie e disadorne cappelle fatte costruire dai frati cavalieri in Palestina e presenta le stesse caratteristiche architettoniche della chiesa di Santa Maria di Monteluce e dell’abbazia di Santa Maria di Valdiponte a Montelabate, costruite sulla medesima linea di orientamento campagna-città su cui è posta la stessa San Bevignate. All’interno è una navata unica con due campate coperte da volte a crociera (mentre la copertura originale doveva essere a capriate); l’abside quadrata, posta al di sopra di una cripta e leggermente rialzata rispetto al piano della chiesa, è introdotta da un grandioso arco trionfale. Tutta la storia del luogo traspare in modo evidente dai cicli iconografici di diverse epoche compresenti sulle pareti: la Processione di flagellanti, la splendida Battaglia fra templari e musulmani e la breve Legenda di san Bevignate, sul cui mantello molti pellegrini e devoti incisero i propri graffiti nel corso del Quattrocento e del Cinquecento. La navata e l’abside sono ricoperte di interessanti affreschi iniziati subito dopo l’edificazione del tempio. Nella cella absidale, dove compaiono anche numerosi motivi simbolici collegati con l’Ordine templare come croci cosmologiche e stelle, si susseguono dipinti (1260-1270) vicini per stile ad altri esempi perugini del XIII secolo, come quelli in San Prospero. A questa stessa fase decorativa appartengono anche gli affreschi dell’arco trionfale e della controfacciata, mentre ad un periodo successivo, databile intorno al 1280 (probabilmente coincidente con una riconsacrazione della chiesa), sono riferibili le figure di Apostoli distribuite per tutto il perimetro dell’edificio.La chiesa, negli ultimi secoli, ha subito numerose trasformazioni strutturali, la maggior parte delle quali abbastanza improprie: da deposito legnami a canile, da caserma dei Vigili del fuoco a magazzino. Nel 2003, con un finanziamento di 500 000 euro (proveniente dai fondi messi a disposizione per i restauri dei danni causati dal terremoto del 1997) è stato progettato un intervento complessivo legato alla conoscenza dell’edificio e alla sua storia. Altri 750 000 euro (erogati in tre anni) hanno permesso di intervenire globalmente su tutta la struttura. Nel 2005 il Governo italiano ha erogato altri 560 000 euro con i quali si è messo in opera il progetto che prevede la trasformazione dell’unica navata della chiesa in una sala per eventi culturali capace di 250 poltrone, e l’intero complesso ospiterà un centro internazionale di studi sull’Ordine dei monaci guerrieri che difendevano gli itinerari dei pellegrini in Terra santa. L’apertura al pubblico, inizialmente prevista per il maggio del 2008, è avvenuta 20 marzo 2009.I lavori di restauro hanno riservato una gradevole sorpresa: proprio durante i lavori preparatori al cantiere, dopo la demolizione del pavimento della chiesa, è stato rinvenuto un ampio tratto di pavimentazione in cotto e, a una quota inferiore, un tratto di pavimentazione in mosaico di periodo romano attribuibile a una domus romana. Gli scavi sotto la navata, a cura della Soprintendenza Archeologica, hanno restituito un sistema di cinque vasche diverse per tipologie e superfici. Due sono collegate tra loro e presentano una pavimentazione a mattoncini disposti a spina di pesce. In una di queste è stata recuperata anche una moneta di bronzo, databile tra il III e il II secolo a.C. Sono stati inoltre rinvenuti dei canalicoli simili ai moderni impianti fognari. Secondo gli esperti, che lo hanno definito un reperto molto raro, si tratterebbe di un impianto artigianale per il trattamento dei tessuti (fullonica).La scoperta della “lavanderia-tintoria” di epoca romana ha causato una modifica del progetto iniziale: sotto il pavimento in cotto è stato ricavato uno stretto camminatoio aperto per i visitatori. La revisione ha avuto come conseguenza un incremento di spesa di circa 300 000 euro, che sono stati finanziati dall’Amministrazione comunale.

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ORVIETO

Notizie attendibili riguardanti i primi insediamenti umani risalgono al VII secolo a.C., ma è da ritenersi che il luogo fosse già abitato sin dall’Età del bronzo e del ferro.Le testimonianze archeologiche di epoca etrusca, fornite da campagne di scavo e studi condotti negli ultimi anni, offrono un quadro abbastanza attendibile, anche se ancora incompleto, della città antica, identificata dopo molte incertezze e polemiche tra etruscologi, nella città di Velzna, una delle dodici città-stato etrusche. Denominata dai romani “Volsinii” sorgeva nei pressi di un famoso santuario etrusco, Fanum Voltumnae, meta ogni anno degli abitanti dell’Etruria che vi confluivano per celebrare riti religiosi, giochi e manifestazioni. La città ebbe, dall’VIII al VI secolo a.C., un notevole sviluppo economico, di cui beneficiavano principalmente ricche famiglie in un regime fortemente oligarchico, e un incremento demografico che, nella composizione della popolazione, mostra l’apertura ad una città multietnica; di tutto ciò si ha riscontro dai resti della città sulla rupe e principalmente dalle vicine necropoli. La città raggiunse il massimo splendore tra il VI e il IV secolo a.C., diventando un fiorente centro commerciale e artistico, con una supremazia militare garantita dalla sua posizione strategica che le dava l’aspetto di una fortezza naturale.Tra la fine del IV e l’inizio del III secolo a.C. l’assetto sociale che aveva permesso la crescita della città, si incrinò. I ceti prima esclusi conquistarono il governo della cosa pubblica, il dissidio tra le classi divenne violento, finché i nobili non chiesero aiuto ai Romani. Questi, nel 264 a.C., colsero l’occasione per inviare l’esercito a Volsinii e, invece di sottometterla, la distrussero e deportarono gli abitanti scampati all’eccidio sulle rive del vicino lago di Bolsena, dove sorse Volsinii Novi (Bolsena). Non si conosce il motivo di tale accanimento dei Romani nei confronti della città che, secondo le notizie letterarie, trasportarono a Roma oltre duemila statue razziate dai santuari orvietani, ed evocarono nell’Urbe il dio Vertumnus, la principale divinità degli Etruschi. La traslazione della città fisica della Orvieto antica da un sito all’altro si ripeterà in senso inverso provocata ancora da altre invasioni. Fu rifondata allora sulla rupe orvietana la cittadella altomedievale di Ourbibentos che, nell’arco di qualche secolo, diverrà una nuova città con il nome di Urbs Vetus (città vecchia).Dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, Orvieto divenne dominio dei Goti fino al 553 quando, dopo una cruenta battaglia e un assedio, fu conquistata dai Bizantini di Belisario. Successivamente, dopo l’istituzione del Ducato di Spoleto, divenne longobarda. Poco prima dell’anno Mille la città, posta sulla linea di confine dell’Italia bizantina, di cui costituiva un importante nodo strategico, tornò a rifiorire, espandendo il suo tessuto urbanistico con la costruzione di fortificazioni, palazzi, torri e chiese.Orvieto, sede residenziale delle corti pontificie in ripetute occasioni, è la Città del Corpus Domini: da qui, l’11 agosto 1264, papa Urbano IV istituì la solennità universale cristiana del Corpus et Sanguis Domini, celebrata in tutto il mondo cattolico. L’officio della messa fu redatto da San Tommaso d’Aquino, cattedratico nello Studium orvietano. Si costituì in Comune, ma anche se non faceva parte ufficialmente del patrimonio di San Pietro, si trovava sotto il suo controllo; per essere riconosciuto governo comunale ebbe bisogno di una dichiarazione di consenso da parte di papa Adriano IV nel 1157. Nel XII secolo Orvieto, forte di un agguerrito esercito, iniziò ad ampliare i propri confini che, dopo vittoriose battaglie contro Siena, Viterbo, Perugia e Todi, la videro dominare su un vasto territorio che andava dalla Val di Chiana fino alle terre di Orbetello e di Talamone sul mar Tirreno. In questa sua espansione, Orvieto si era fatto un potente alleato: Firenze (rivale di Siena) che ne aveva appoggiato l’ascesa. I secoli XIII e XIV furono il periodo di massimo splendore per Orvieto che, con una popolazione di circa trentamila abitanti (superiore perfino a quella di Roma), divenne una potenza militare indiscussa, e vide nascere nel suo territorio urbano splendidi palazzi e monumenti.Ma paradossalmente questa epoca vide anche il nascere di furibonde lotte interne nella città. Due famiglie patrizie, la guelfa Monaldeschi e la ghibellina Filippeschi, straziarono la città con cruenti battaglie che, insieme alle successive lotte religiose tra i Malcorini, filoimperiali, ed i Muffatti, papalini, indebolirono il potere comunale favorendo, nel 1354, la conquista da parte del cardinale Egidio Albornoz. In questo lasso di tempo altri avvenimenti, degni di nota, si erano registrati ad Orvieto:Papa Innocenzo III, dai pulpiti della chiesa di Sant’Andrea, aveva proclamato la IV crociata; nel 1281, nella stessa chiesa, alla presenza di Carlo I d’Angiò, veniva elevato al pontificato Papa Martino IV e, nel 1297, nella chiesa di San Francesco, avveniva la canonizzazione di Luigi IX di Francia, presente papa Bonifacio VIII. Dopo il cardinale Albornoz, Orvieto venne assoggettata a varie signorie: Rinaldo Orsini, Biordo Michelotti, Giovanni Tomacello e Braccio Fortebraccio per ritornare poi, nel 1450, definitivamente a far parte dello Stato della Chiesa, divenendone una delle province più importanti e costituendo l’alternativa a Roma per molti pontefici, vescovi e cardinali che vi venivano a soggiornare. I secoli XVII e XVIII furono periodi di tranquillità per la città. Sotto l’Impero Napoleonico assurse a cantone e più tardi, nel 1831, sotto la Chiesa, venne elevata a delegazione apostolica. Nel 1860, liberata dai Cacciatori del Tevere, fu annessa al Regno d’Italia.Durante la seconda guerra mondiale la città e il territorio di Orvieto assunsero una notevole importanza strategica; durante l’operazione Achse le truppe tedesche della 3. Panzergrenadier-Division, schierate in un’ampia area tra Umbria, Lazio settentrionale e Toscana meridionale, agirono con rapidità e occuparono fin dalle prime ore dopo l’8 settembre la città, insieme a Viterbo, Montefiascone e Orte, prima di avanzare verso Roma[2]. Nei mesi dell’occupazione i tedeschi utilizzarono i campi di aviazione presenti nell’area.Nella fase della campagna d’Italia successiva alla liberazione di Roma, il 5 giugno 1944, il feldmaresciallo Albert Kesselring fece ripiegare le sue forze sulla linea Albert che collegava la zona del lago Trasimeno con Orvieto[3]. Le truppe tedesche dell 29. Panzergrenadier-Division difesero tenacenente le vie di accesso alla città fino al 14 giugno quando evacuarono Orvieto e ripiegarono verso Siena[4][5]. La città venne liberata da reparti britannici della 78ª Divisione di fanteria mentre nell’area furono anche impiegate forze meccanizzate sudafricane della 6ª Divisione corazzata.In base ad un decreto del 1928, lo stemma del Comune di Orvieto è costituito da uno scudo ripartito in quattro sormontato da una corona. Nelle quattro ripartizioni sono rappresentati quattro simboli: la Croce, l’Aquila, il Leone e l’Oca[6].La croce rossa in campo bianco simboleggia la fedeltà del Comune alla fazione dei Guelfi e fu riconosciuto al Comune di Orvieto dal papa Adriano IV nel 1157.L’aquila nera con una corona d’oro in campo rosso fa riferimento alla dominazione dei Romani. Il lambello d’oro con cinque pendenti fu posto al collo dell’aquila quando Carlo d’Angiò concesse ad Orvieto il titolo di “città”, dopo essere stato incoronato nella cattedrale di Orvieto re del Regno di Sicilia da parte del papa Clemente IV. Il lambello richiama quello rosso della casa d’Angiò.Il leone in campo rosso tiene una spada d’argento con la zampa destra e le chiavi di San Pietro con la sinistra. Esso richiama il leone fiorentino, a ricordo della storica alleanza fra le due città. Le chiavi, con il motto fortis et fidelis, sono una concessione del papa Adriano IV come riconoscimento della lunga fedeltà di Orvieto al papato.L’oca, con una zampa sollevata sopra un sasso, rimanda alle leggendarie oche del Campidoglio che, con il loro schiamazzo, salvarono Roma dall’attacco dei nemici.

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 CIVITA DI BAGNOREGIO

Civita è una frazione del comune di Bagnoregio, in provincia di Viterbo, nel Lazio, facente parte dei borghi più belli d’Italia, famosa per essere denominata “La città che muore”.Civita venne fondata 2500 anni fa dagli Etruschi. Sorge su una delle più antiche vie d’Italia, congiungente il Tevere (allora grande via di navigazione dell’Italia Centrale) e il lago di Bolsena.All’antico abitato di Civita si accedeva mediante cinque porte, mentre oggi la porta detta di Santa Maria o della Cava, costituisce l’unico accesso al paese. La struttura urbanistica dell’intero abitato è di origine etrusca, costituita da cardi e decumani secondo l’uso etrusco e poi romano, mentre l’intero rivestimento architettonico risulta medioevale e rinascimentale. Numerose sono le testimonianze della fase etrusca di Civita, specialmente nella zona detta di San Francesco vecchio; infatti nella rupe sottostante il belvedere di San Francesco vecchio è stata ritrovata una piccola necropoli etrusca. Anche la grotta di San Bonaventura, nella quale si dice che San Francesco risanò il piccolo Giovanni Fidanza, che divenne poi San Bonaventura, è in realtà una tomba a camera etrusca. Gli etruschi fecero di Civita (di cui non conosciamo l’antico nome) una fiorente città, favorita dalla posizione strategica per il commercio, grazie alla vicinanza con le più importanti vie di comunicazione del tempo.Del periodo etrusco rimangono molte testimonianze: di particolare suggestione è il cosiddetto “Bucaione”, un profondo tunnel che incide la parte più bassa dell’abitato, e che permette l’accesso, direttamente dal paese, alla Valle dei Calanchi. In passato erano inoltre visibili molte tombe a camera, scavate alla base della rupe di Civita e delle altre pareti di tufo limitrofe che purtroppo furono in gran parte fagocitate, nei secoli, dalle innumerevoli frane. Del resto, già gli stessi Etruschi dovettero far fronte ai problemi di sismicità e di instabilità dell’area, che nel 280 a.C. si concretarono in scosse telluriche e smottamenti. All’arrivo dei romani, nel 265 a.C., furono riprese le imponenti opere di canalizzazione delle acque piovane e di contenimento dei torrenti avviate dagli etruschi.Come detto sopra, il problema dell’erosione era già all’epoca degli Etruschi molto importante. Quindi misero in atto alcune opere che avevano il preciso scopo di proteggere Civita dai terremoti e dagli smottamenti, arginando fiumi e costruendo canali di scolo per il corretto deflusso delle acque piovane. I romani ripresero le opere dei loro predecessori, ma dopo di loro queste furono trascurate ed il territorio ebbe un rapido degrado che portò, infine, all’abbandono della Civita.All’interno del borgo rimangono varie case medievali, la chiesa di San Donato, che si affaccia sulla piazza principale e dove al suo interno è custodito il S.S. Crocefisso ligneo, il Palazzo Vescovile, un mulino del XVI secolo, la casa natale di San Bonaventura e la porta di Santa Maria, con due leoni che tengono tra le zampe una testa umana, a ricordo di una rivolta popolare degli abitanti di Civita contro la famiglia orvietana dei Monaldeschi.Nel 2005 i calanchi di Civita di Bagnoregio sono stati proposti come sito di interesse comunitario.

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SPOLETO

Spoleto è centro abitato fin dalla preistoria. Le prime testimonianze di insediamenti[senza fonte] risalgono almeno all’età del bronzo finale (XII-XI secolo a.C.): i reperti di maggiore interesse sono venuti alla luce alla sommità e sui pendii del colle Sant’Elia, dove molti secoli più tardi sorgerà la Rocca albornoziana.Durante l’età del ferro Spoleto fu uno dei maggiori centri umbri, in posizione dominante sulla valle umbra. Rimangono numerose sepolture ad inumazione con ricchi corredi databili al VII-VI secolo a.C. trovate soprattutto a Piazza d’Armi. Eccezionali sono i ritrovamenti di 4 scettri, tra cui ne due raffigurati con animali e dei (?) in una tomba principesca, il vasellame di impasto decorato con elementi fittili di cavalli, uccelli ed animali fantastici e due sonagli in lamina bronzea e in ferro. Si colgono chiari elementi di potere aristocratico e reale già per diritti di nascità, come dimostrano le tombe neonatali che contengono armi (dischi-corazza, lance, pugnali), e simboli di status (kantharos bronzeo, fiaschetta d’impasto).Rimangono inoltre resti delle mura poligonali del V-IV secolo a.C., dette mura ciclopiche, costituite da enormi massi di pietra calcarea in forma poligonale.Un importante documento lapideo arrivato ai giorni nostri è la Lex spoletina, conservato al Museo archeologico nazionale di Spoleto.

 

Divenne colonia romana nel 241 a.C. con il nome di Spoletium e si mantenne sempre fedele a Roma, in special modo durante le guerre puniche, non soltanto respingendo Annibale dopo la sua vittoria al Trasimeno (217 a.C.)[3], ma soprattutto nel periodo critico successivo a quel lungo conflitto.Nel 43 a.C. vi sostò Ottaviano, prima della battaglia di Modena, officiando un sacrificio rituale presso uno dei templi della città.Agli inizi del V secolo si sa che risiedeva a Spoleto il senatore romano Giulio Naucellio.Abbellita da Teodorico, che fra il 507 e il 511 pose mano al restauro della città e alla bonifica della valle in larga parte impaludata, e da Belisario (536), Spoleto fu espugnata da Totila (545) e restaurata da Narsete che, dopo il 553, intraprese il ripristino delle mura.Sotto i Longobardi Spoleto fu capitale dell’omonimo ducato, proiettando l’influenza politica della città su un vasto territorio dell’Italia centro-meridionale, fino al ducato di Benevento.Caduti i Longobardi, il ducato passò ai Franchi. Quando l’impero carolingio fu smembrato, i duchi di Spoleto, Guido III e suo figlio Lamberto, si spinsero alla conquista della corona imperiale (889).Il toponimo Spoleto deriverebbe dalla congiunzione delle parole greche “Spao” e “Lithos” (Σπαω-λιθος), ovvero sasso-staccato: in altre parole il colle Sant’Elia (ovvero “il colle del sole”) su cui è sorta la città sarebbe stato interpretato come il resto di una frana staccatasi dal Monteluco, ma tale teoria non è stata mai confermata.Nel 1155 Spoleto, “munitissima città, difesa da cento torri”[senza fonte] fu, secondo la tradizione, distrutta da Federico Barbarossa.Contesa poi tra l’Impero e la Chiesa, fu a questa aggregata da Papa Innocenzo III nel 1198 e, definitivamente, nel 1247. Funestata da conflitti tra Guelfi e ghibellini, fu riappacificata dal cardinale Egidio Albornoz (egli, nel 1359, diede inizio ai lavori di costruzione della Rocca come sede dei governatori della città); fu assicurata alla Chiesa e fatta centro importante dello Stato pontificio, che le mandò autorevoli governatori, tra cui anche Lucrezia Borgia (1499).Dal Rinascimento in poi, Spoleto si trasformò progressivamente da centro prevalentemente strategico a centro culturale, con la fondazione dell’Accademia degli ottusi (oggi Accademia spoletina). Seguirono periodi di splendore e di decadenza. I papi, Urbano VIII e Pio IX erano stati rispettivamente vescovo ed arcivescovo di Spoleto.Durante l’occupazione francese nel periodo napoleonico, Spoleto fu capoluogo prima del dipartimento del Clitunno e poi di quello del Trasimeno, per la sua prossimità ai territori montani confinanti con il Regno di Napoli, e perciò esposti alla penetrazione del brigantaggio[senza fonte], che consentiva un più agevole controllo territoriale.La Restaurazione (1814) la fece sede di una delegazione pontificia sino alla Unità d’Italia.Il 17 settembre 1860, le truppe del generale piemontese Filippo Brignone entrarono a Spoleto, sottraendo la città allo Stato pontificio. Successivamente, con il plebiscito del 4 novembre 1860, che coinvolse Marche e Umbria, Spoleto fu annessa al Regno d’Italia.Dopo l’unità, il nuovo Stato italiano privilegiò Perugia come capoluogo di una vastissima provincia, che inglobava anche il territorio spoletino e si estendeva fino alla Sabina, relegando quindi Spoleto ad un ruolo di secondo piano, anche se ancora per molti anni la città continuò a restare sede di diverse istituzioni quali ad esempio il distretto militare.Infine, con la successiva cessione della Sabina al Lazio e la promozione di Terni a capoluogo di provincia, nel 1927, Spoleto ha finito per perdere definitivamente il suo antico ruolo di centro politico-amministrativo dell’Umbria meridionale.

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SPELLO

Spello fu fondata dagli umbri per poi essere denominata Hispellum in epoca romana. Fu dichiarata da Cesare “Splendidissima Colonia Julia”.I resti della cinta muraria, molto più ampia in passato di quanto possiamo ammirare oggi, attestano la grandezza che ebbe la città, così come i resti archeologici che la circondano. Devastante per Spello fu la discesa in Italia dei Barbari che la ridussero in una povera borgata. In età longobarda e franca fece parte del ducato di Spoleto, per poi passare allo Papato. La cittadina tuttavia, memore della prosperità e della relativa autonomia di cui godeva in epoca romana, non tardò a divenire libero Comune con proprie leggi. Nel 1516 il comune fu infeudato dal Papa alla famiglia perugina dei Baglioni cui appartenne fino al 1648.Nel IV secolo Spello fu sede vescovile e nell’Alto Medioevo – con altre diocesi vicine ora soppresse – fece parte per moltissimo tempo della vastissima diocesi di Spoleto. Attualmente Spello è invece integrata nella diocesi di Foligno.La contea di Spello e di Bettona fu un feudo pontificio concesso a Giampaolo I Baglioni dal papa Leone X nel 1516 e durato per 132 anni fino al 1648. Si estendeva tra il Subasio, le pendici dei monti Martani, parte della valle Umbra, lungo il fiume Chiascio.La famiglia Baglioni amministrò questo territorio per un secolo dopo la fine della loro signoria su Perugia (1424-1540). L’insigne famiglia dei Baglioni, oltre alla signoria su Perugia, decaduta e riassorbita dallo Stato della Chiesa, fu dunque titolare della contea di Spello e di Bettona. Questi due antichi e grossi borghi, di origine romana ed etrusca, furono amministrati da tre generazioni baglionesche, con il diritto di mero et mixto imperio, ovvero la capacità, assai ricercata e blandita, di gestire la giurisdizione civile e penale, nonché l’obbligo di corrispondere annualmente una libbra di cera, come omaggio feudale alla Santa Sede, il 29 giugno, ricorrenza di san Pietro.[2]I conti venivano rappresentati in Bettona e a Spello da un vicario o luogotenente: nel 1519 Giampaolo I (1470-1520) emanò gli statuti al fine di regolamentare la vita dei sudditi in campo pubblico e privato. Il papa Medici Leone X, figlio di Lorenzo il Magnifico, che gli aveva conferito il rango comitale con territorio, lo revocò, però, nel 1524, al successore Malatesta IV (1491-1531) che lo riebbe nel 1528 per volere di Clemente VII.In questo periodo esistevano nella zona pochissimi feudi pontifici: il marchesato di Castiglione del Lago, il ducato di Salci, il marchesato di Montoro e la contea di Sterpeto d’Assisi.[3]Nel periodo tra il 1533 e il 1559 la contea ritornò di nuovo alla Reverenda Camera Apostolica, nonostante i tentativi di Rodolfo II (1512-1554) per mantenerla, per essere poi restituita, appunto nel 1559, da Pio IV. Il pontefice decise tuttavia di differenziare il residuo possedimento degli antichi signori di Perugia assegnando ad Astorre II (1526-1571) e ad Adriano II (1526-1574) Spello e Bastia, a Giampaolo II (1552-1608) e al piccolo fratello Rodolfo il postumo (1554-1596) Bettona e terre limitrofe.[4]La cosiddetta “contea vecchia” comprendeva: Spello (sede del conte e dell’organo esecutivo), Collepino (residenza estiva), Bastia (fino al 1580), Cannara, Limigiano, Castelbuono e Cantalupo. La “contea nuova”, invece, annoverava: Bettona (vi esercitavano il proprio ufficio il luogotenente del conte e il titolare della chiesa madre di Santa Maria Maggiore), Collemancio (dimora stagionale) e Colle. Il feudo si ampliò con Graffignano (presso Viterbo), San Venanzo e Collelungo nell’orvietano, paeselli costituenti l’eredità di Monaldesca Monaldeschi, moglie di Malatesta IV.[5]Il conte risiedeva nel palazzo a Spello (nell’odierna piazza della Repubblica), il vicario e il feudatario (quando vi capitava) nel gentilizio edificio, dotato di rigogliosi giardini, a Bettona (vi morì Malatesta IV). In caso di assedio si rifugiava nella rocca spellana. La linea baglionesca cadetta, detta “di Bettona”, discendente da Oddo Lodovico e Braccio I, si estinse nel 1648 con Malatesta V (1611-1648), figlio di Giampaolo II e di Giulia Baglioni, e il feudo fu annesso allo Stato Pontificio per disposizione del papa Innocenzo X. L’ultimo conte sovrano (era anche vescovo di Assisi), cosciente della fine della stirpe, si firmava “ultimus ex suis: i suoi due fratelli, Orazio III e Adriano, morirono, infatti, nel 1611 e nel 1622.[6]I Baglioni contribuirono ad abbellire Spello commissionando a famosi artisti opere come la cappella Baglioni (collegiata di Santa Maria Maggiore), affrescata dal Pinturicchio secondo la volontà del priore Troilo, appartenente alla famiglia reggente, con pavimentazione in maiolica (1566) realizzata dal “frate” di Deruta. Rocco di Tommaso da Vicenza vi eseguì un pregevole ciborio.I Baglioni avevano la tradizionale sepoltura nella basilica perugina di San Domenico, nella cripta sotto il coro (oggi segnata da una semplice lapide, quando fino all’Ottocento esistevano ancora, intorno all’abside, i monumenti sepolcrali di Malatesta IV e Orazio II, deceduto a Spello): oltre ai suddetti signori, vi furono tumulati Rodolfo III e Simonetto, fratello di Giampaolo I, fino a Malatesta V. La tomba di Adriano II si trovava a Roma in Santa Maria in Aracoeli, quella di Giampaolo nella chiesa di Santa Maria in Traspontina. Altri della prosapia (tra cui Atalanta e Grifonetto) furono interrati in San Francesco al Prato di Perugia.

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