ASTI,CANTINA DEI F.LLI ROVERO, SACRA DI SAN MICHELE, CASTELLO DI ISSOGNE E CASTELLO DI FENIS 18/19 OTTOBRE 2014

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ASTI

Asti fu edificata dai Romani (con il nome di Hasta Pompeia), sebbene la prima vera fondazione sia da ricondursi a popolazioni liguri che, in precedenza, avevano impiantato un villaggio proprio nella zona corrispondente all’attuale città. Alcune sezioni delle antiche mura sono ancora presenti nella parte settentrionale della città, e durante il XX secolo dei lavori di scavo hanno rivelato un’altra sezione delle mura romane nel centro della città.n seguito durante il Medioevo, Asti è stata un importante centro di scambi commerciali e bancari. È questo il periodo più felice per la città, che si abbellisce di numerose torri e caseforti e vede estendere il proprio potere su numerose città e paesi, come Bra, Villanova, Fossano, Nizza Monferrato, Ceva e Garessio. La cessione di Castello d’Annone da parte del vescovo il 28 marzo 1095 ai consoli dimostra l’esistenza del Comune indipendente già nell’XI secolo.Nel periodo comunale, data la grande ricchezza della città, si era sviluppata la classe mercantile. Nacquero infatti proprio in quel periodo le “casane”, istituti di credito su pegno. Praticamente i Casanieri prestavano somme di denaro, facendosi consegnare in garanzia terre e castelli. I mercanti astesi operavano in tutta Europa.Nel Medioevo le famiglie nobili si scontrarono spesso tra loro a causa della lotta tra guelfi e ghibellini.
Famiglie Guelfe: la fazione era capeggiata dai potentissimi Solaro/Solari e comprendeva anche le famiglie dei Malabayla, Garretti, Troja, Falletti, Ricci, Damiani.
Famiglie Ghibelline: capeggiate dai Guttuari, Turco, Isnardi (tutte e tre formavano il Consorzio dei De Castello), spalleggiate dagli Alfieri, Coppa, Scarampi, Catena, Buneo, Cacherano.
Famiglie Caroca (Raimondo Caroca) Console
I Roero e i Pelletta erano addirittura divisi internamente.
L’area nord-occidentale della città, tra il centro e la cattedrale, è molto ricca di case di mercanti medievali e di palazzi, molti dei quali dotati di torri monumentali. Asti era nota come la città delle cento torri (sebbene il numero totale fosse di 120), molte delle quali sono ancora presenti tutt’oggi all’interno della cinta muraria.
Nel 1312 il Comune di Asti si sottomise spontaneamente alla protezione del re di Napoli Roberto d’Angiò, nel 1349 acclamò quale signore Giovanni II Paleologo marchese del Monferrato, passando nel 1379 a Giangaleazzo Visconti, il quale la costituì in contea e nel 1387 la cedette ai duchi d’Orleans, quale dote per sua figlia Valentina Visconti, assieme al centinaio di terre, castelli e villaggi costituenti la sua antica Repubblica, che da quel momento fu definita orgogliosamente “Patria Astese”.Nel 1531 la Contea di Asti venne ceduta ai Savoia dall’Imperatore Carlo V, quale dote di nozze per sua cognata, Beatrice del Portogallo che sposò il duca Carlo III di Savoia. Da quel momento la città seguì le sorti dei Savoia.Nel 1797 Asti fu teatro di una grande rivolta, passata alla storia con il nome di “Rivoluzione Astese”. Il 22 luglio ci fu una sommossa per la scarsità di grano ed il 28 venne proclamata la repubblica da Secondo Arò, Felice Berruti, Gian Secondo Berruti e Gioachino Testa. Il 30 le truppe realiste, appoggiate da contadini sandamianesi, rioccuparono la città e il 2 agosto fucilarono gli insorti.Nel 1935 Asti divenne capoluogo di provincia, staccando il suo territorio dalla provincia di Alessandria[8].
Durante la seconda guerra mondiale, dopo l’armistizio dell’otto settembre 1943 con gli Alleati, la Repubblica di Salò e l’occupazione germanica, Asti e il Monferrato vissero in pieno la guerra di resistenza, i bombardamenti anglo-americani, la guerriglia partigiana, la persecuzione degli ebrei, le deportazioni e i rastrellamenti.
Il 4 settembre del 1948 la città subì gravissimi danni e svariate vittime a causa di un’alluvione scatenata da pesanti nubifragi, che si concretizzò nell’esondazione di alcuni torrenti come il Borbore e il Tinella e del fiume Tanaro.
Il 6 novembre 1994 fu colpita da una nuova alluvione, dovuta allo straripamento dagli argini del fiume Tanaro.
Il 21 giugno 2012 subì un breve ma fortissimo temporale (una supercella secondo i meteorologi) che non causò fortunatamente gravi danni come nel ’94 ma provocò una piccola alluvione in zone come: Piazza Marconi, Via Cavour, Corso Alfieri e Piazza del Palio. Furono calcolati danni all’agricoltura per milioni di euro e danni comunali per altrettanti euro dovuti ad alberi sradicati e strade bloccate dagli innumerevoli detriti portati dal forte vento.

SACRA DI SAN MICHELE

La sacra di San Michele è un complesso architettonico collocato sul monte Pirchiriano, all’imbocco della val di Susa; è situato nel territorio del comune di Sant’Ambrogio di Torino poco sopra la borgata San Pietro, ed appartiene alla diocesi di Susa. È il monumento simbolo del Piemonte e una delle più eminenti architetture religiose di questo territorio alpino, transito per i pellegrini tra Italia e Francia. Ristrutturato, è stato affidato alla cura dei padri rosminiani.Secondo alcuni storici, già in epoca romana esisteva, nel luogo in cui sorge ora l’abbazia, un presidio militare che controllava la strada verso le Gallie. Successivamente anche i Longobardi installarono un presidio che fungesse da baluardo contro le invasioni dei Franchi, facendo del luogo un caposaldo delle cosiddette chiuse longobarde delle quali rimangono alcune vestigia nel sottostante paese di Chiusa di San Michele.
Le fasi iniziali della nascita della sacra di San Michele sono incerte e avvolte in un’alternanza di storia e racconti leggendari. Lo storico più antico fu un monaco Guglielmo, vissuto proprio in quel cenobio e che, intorno alla fine del XI secolo, scrisse il Chronicon Coenobii Sancti Michaelis de Clusa. In questo scritto, la data di fondazione della sacra è indicata nel 966, ma lo stesso monaco, in un altro passo della sua opera, afferma che la costruzione iniziò sotto il pontificato di papa Silvestro II (999 – 1003), in precedenza abate dell’abbazia di San Colombano di Bobbio.
Per quanto concerne la data di fondazione, alcuni studiosi sono orientati ad identificare negli anni 999-1002 il periodo in cui nacque questa abbazia, mentre per altri la data di fondazione dovrebbe essere anticipata agli anni 983-987. In sostanza quindi l’origine vera e propria della costruzione risale al tempo in cui visse il santo Giovanni Vincenzo, tra la fine del X e l’inizio dell’XI secolo.
Accanto al sacello più antico, Giovanni Vincenzo ne realizzò un altro che è l’ambiente centrale della cripta. Gli studiosi tendono ad attribuire questo ambiente a Giovanni Vincenzo in quanto le nicchie, gli archetti e le colonnine richiamano motivi analoghi propri dell’architettura bizantina, e l’eremita probabilmente soggiornò nella città di Ravenna o in una qualche diocesi del ravennate. Nei decenni successivi fu costruito un piccolo cenobio che ospitava pochi monaci e poteva accogliere qualche pellegrino.
Questa costruzione è dovuta alla magnanimità e alla fede di Hugo di Montboissier, governatore di Aurec-sur-Loire, nell’Alvernia.
Nei decenni successivi, la struttura dell’abbazia, affidata ai Benedettini, si sviluppò progressivamente dando asilo ai pellegrini e protezione alle popolazioni della zona. Nel XI secolo fu infatti costruito l’edificio della foresteria, staccato dal monastero, e in grado di accogliere i numerosi pellegrini che, percorrendo la via Francigena, vi salivano per trovare ristoro fisico e spirituale. Un grande impulso fu dato dall’abate Adverto di Lezat (diocesi di Tolosa) chiamato da Ugo di Montboissier a dirigere il primo cenobio. Probabilmente l’architetto Guglielmo da Volpiano realizzò il progetto della chiesa posta sopra le tre preesistenti. Il periodo interessato da questo sviluppo è compreso tra il 1015 e il 1035.
Il Monastero Nuovo, oggi in rovina, venne edificato sul lato nord e aveva tutte le strutture necessarie alla vita di molte decine di monaci: celle, biblioteca, cucine, refettorio, officine. Questa parte del complesso si trova nel posto in cui probabilmente sorgeva il castrum di epoca romana. Di questa costruzione rimangono ora dei ruderi affacciati sulla Val di Susa: era un edificio a cinque piani, la cui imponenza è manifestata dai muraglioni, dagli archi e dai pilastri. Svetta, su tutte le rovine, la torre della bell’Alda, oggetto di una suggestiva leggenda: una fanciulla, la bell’Alda appunto, volendo sfuggire dalla cattura di alcuni soldati di ventura, si ritrovò sulla sommità della torre. Dopo aver pregato, disperata, preferì saltare nel burrone piuttosto che farsi prendere; le vennero in soccorso gli angeli e miracolosamente atterrò illesa. La leggenda vuole che, per dimostrare ai suoi compaesani quanto era successo, tentasse nuovamente il volo dalla torre, ma che per la vanità del gesto ne rimase uccisa.
L’abate Ermengardo, che resse il monastero dal 1099 al 1131, fece realizzare l’opera più ardita di tutta l’imponente costruzione, l’impressionante basamento che, partendo dalla base del picco del monte, raggiunse la vetta e costituì il livello di partenza per la costruzione della nuova capiente chiesa. Questo basamento è alto ben 26 metri ed è sovrastato dalle absidi che portano la cima della costruzione a sfiorare i 1.000 metri di altitudine rispetto ai 960 del monte Pirchiriano. Proprio la punta del monte Pirchiriano costituisce la base di una delle colonne portanti della chiesa ed è tuttora visibile e riconoscibile grazie alla presenza di una targa riportante la dicitura: “culmine vertiginosamente santo” modo in cui amava definire questo posto il poeta rosminiano Clemente Rebora.
La nuova chiesa, che è anche quella attuale, è stata eretta su strutture possenti e sovrasta le più antiche costruzioni che sono state così inglobate. Questa costruzione dovette richiedere molti anni e il trascorrere del tempo è documentato nel passaggio che si trova all’interno delle campate tra il pilastro cilindrico e quello polistilo e nel variare del gusto che passa dal romanico al gotico sia nelle decorazioni che nella forma delle porte e delle finestre.
Il lavoro durò a lungo e fu più volte interrotto a causa delle difficoltà che si incontravano nella realizzazione di un’opera tanto imponente; in particolare richiese molto tempo la costruzione del basamento e delle absidi, che furono costruite per prime con la prima campata sostenuta da due pilastri rotondi. Tutto questo ha comportato, nelle navate, il sovrapporsi di tre tipi di architettura: uno stile romanico con caratteristiche normanne, uno stile romanico che si può definire di transizione ed infine uno stile gotico francese.
Tra il 1120 e il 1130 lavorò alla Sacra lo scultore Niccolò. Dal protiro, altissimo a più piani, si accede allo scalone dei Morti, così chiamato perché anticamente era fiancheggiato da tombe. Qui si trova la porta dello Zodiaco, con gli stipiti decorati da rilievi dei segni zodiacali, che all’epoca erano un modo per rappresentare lo scorrere del tempo (quindi una sorta di memento mori). In questi rilievi, simili a quelli dei popoli fantastici nella porta dei Principi di Modena, si riscontrano influenze del linearismo della scuola scultorea di Tolosa.
Gli interventi fatti per adattare lo sviluppo architettonico al particolare ambiente costituito dalla vetta del monte Pirchiriano hanno portato al rovesciamento degli elementi costitutivi fondamentali. In tutte le chiese la facciata è sempre localizzata frontalmente rispetto alle absidi poste dietro l’altare maggiore e contiene il portale di ingresso; al contrario, la facciata della sacra si trova nel piano posto sotto il pavimento che costituisce la volta dello scalone dei Morti. La facciata è sotto l’altare maggiore, ed è sovrastata dalle absidi con la loggia dei Viretti, visibile dalla parte del monte rivolta verso la pianura Padana.
Dopo seicento anni di vita benedettina, nel XVII secolo, la Sacra restò quasi abbandonata per oltre due secoli. Nel 1836 Carlo Alberto di Savoia, desideroso di far risorgere il monumento che era stato l’onore della Chiesa piemontese e del suo casato, pensò di collocare, stabilmente, una congregazione religiosa. Offrì l’opera ad Antonio Rosmini, giovane fondatore dell’Istituto della carità, che accettò, trovandola conforme allo spirito della sua congregazione.
Papa Gregorio XVI, con un breve dell’agosto 1836, nominò i rosminiani amministratori della sacra e delle superstiti rendite abbaziali. Contemporaneamente, il re affidò loro in custodia le salme di ventiquattro reali di casa Savoia, traslate dal duomo di Torino, ora tumulate in santuario entro pesanti sarcofaghi di pietra. La scelta di questa antica abbazia evidenzia la prospettiva della spiritualità di Antonio Rosmini che, negli scritti ascetici, richiama costantemente ai suoi religiosi la priorità della vita contemplativa, quale fonte ed alimento che dà senso e sapore ad ogni attività esterna: nella vita attiva il consacrato entra solo dietro chiamata della provvidenza e tutte le opere, in qualsiasi luogo o tempo, sono per lui buone se lo perfezionano nella carità di Dio. I padri rosminiani restano alla sacra anche dopo la legge dell’incameramento dei beni ecclesiastici del 1867 che spogliava la comunità religiosa dei pochi averi necessari per un dignitoso sostentamento e un minimo di manutenzione all’edificio che conserva numerose opere d’arte.
Nel XX secolo particolare importanza riveste la visita di papa Giovanni Paolo II il 14 luglio 1991, nel corso della sua visita alla diocesi di Susa per la beatificazione del vescovo Edoardo Giuseppe Rosaz.

La sacra di San Michele godeva del privilegio di abbatia nullius, ovvero dell’esenzione dalla giurisdizione di un vescovo, da molti secoli, quando fu soppressa nel 1803 durante il periodo napoleonico. Nel 1817 fu ristabilita, ma perdette il secolare privilegio e fu compresa nella diocesi di Susa.
La torre della Bell’Alda alla Sacra di San Michele in Sant’Ambrogio si scorge da molto lontano isolata dal resto del monastero. Essa diede corpo alla fantasia popolare che volle spiccato da lì il salto della Bella Alda: per sfuggire a soldati di ventura, la giovinetta si buttava nel sottostante burrone rimanendovi illesa. Volle riprovarci per vanità e denaro, ma il suo corpo si sfracellò contro le fonde scogliere.

CASTELLO DI ISSOGNE

Il castello di Issogne è uno dei più famosi castelli della Valle d’Aosta. È situato nel capoluogo di Issogne (località La place), sulla destra idrografica della Dora Baltea, e appare come una dimora signorile rinascimentale, creando una sorta di contrasto con l’austero castello di Verrès che si trova quasi di fronte al lato opposto del fiume.
Celebri sono il suo cortile interno, con la fontana del melograno e il coloratissimo porticato, raro esempio di pittura alpina medievale, con il suo ciclo di affreschi di scene di vita quotidiana del tardo Medioevo.Il primo documento in cui è citato il castello di Issogne è una bolla di papa Eugenio III del 1151, che attesta la presenza ad Issogne di una casaforte di proprietà del vescovo di Aosta. Tale casaforte doveva essere simile alla casaforte Villette di Cogne o alla tour Colin di Villeneuve.
Molto probabilmente però il sito era già sede di una villa romana simile alla villa romana di Aosta fin dal I secolo a.C., come dimostrano alcuni muri perimetrali rinvenuti nelle cantine dell’attuale castello.
Il potere del vescovo era però contrastato della famiglia De Verrecio, signori di Verrès, e le tensioni culminarono intorno al 1333 con un assalto da parte di Aymon de Verrès alla casaforte vescovile, che fu data alle fiamme e seriamente danneggiata[5]. Issogne rimase sede vescovile fino al 1379, quando il vescovo di Aosta infeudò della giurisdizione della signoria l’allora signore di Verrès Ibleto di Challant.
Ibleto iniziò così i lavori di ristrutturazione del castello trasformando la casaforte vescovile in una dimora complessa ed elegante, improntata sullo stile del gotico cortese, composta da una serie di torri e corpi di fabbrica racchiusi da una cinta muraria[4].
Alla morte di Ibleto nel 1409 il feudo e il castello di Issogne passarono al figlio Francesco di Challant, che nel 1424 ottenne dai Savoia il titolo di primo conte di Challant. Francesco però non ebbe figli maschi, e alla sua morte nel 1442 si generò una lotta di successione tra la figlia Caterina e suo cugino Giacomo di Challant-Aymavilles. Dopo anni di lotte nel 1456 Caterina dovette cedere i suoi possedimenti a Giacomo, che divenne così il secondo conte di Challant e nuovo signore di Issogne.
Verso il 1480 Luigi di Challant, figlio di Giacomo di Challant-Aymavilles, diede il via a nuovi lavori al castello, ma la maggior parte delle sistemazioni ebbe luogo sotto il priore Giorgio di Challant-Varey, cugino di Luigi, al quale alla sua morte era stata affidata la tutela dei due giovani figli Filiberto e Carlo, nati dal matrimonio con Marguerite de La Chambre[4]. Sotto Giorgio furono costruiti nuovi corpi di collegamento tra gli edifici già esistenti, dando così vita ad un unico palazzo a forma di ferro di cavallo che circonda un ampio cortile. A questo periodo risalgono anche le decorazioni del porticato che circonda il cortile, la cappella, il giardino e la celebre fontana del melograno dall’alto valore simbolico.
Durante gli anni del suo splendore il castello ebbe anche ospiti illustri, come l’imperatore Sigismondo di Lussemburgo durante un suo viaggio di ritorno in Germania nel 1414, o il re Carlo VIII di Francia nel 1494.
Alla morte di Giorgio di Challant nel 1509, dopo la fine dei lavori, nuovo signore di Issogne divenne Filiberto di Challant, che adibì il castello come dimora per sé, per la moglie Louise d’Aarberg e per il figlio Renato. Sotto il dominio di Renato di Challant (René de Challant), il castello raggiunse il suo massimo splendore e la funzione di corte ricca e raffinata.
Non avendo eredi maschi, alla morte di Renato di Challant nel 1565 i suoi possedimenti passarono a Giovanni Federico Madruzzo, che ne aveva sposato la figlia Isabella. Questo scatenò un conflitto ereditario tra la famiglia Madruzzo e i cugini maschi di Isabella della famiglia di Challant che sarebbe andato avanti per più di un secolo.
Nel frattempo la signoria di Issogne e il suo castello furono proprietà prima dei Madruzzo, poi dei Lenoncourt e infine nel 1693 passarono a Cristina Maurizia Del Carretto di Balestrino.
Nel 1696 però ebbe finalmente fine il contenzioso tra i discendenti dei Madruzzo e gli Challant, e Cristina Maurizia dovette restituire Issogne alla famiglia Challant.
Nel 1802, con la morte di Giulio Giacinto, ultimo conte di Challant, e l’estinguersi della casata iniziò per il castello, che già da anni era abbandonato, un periodo di forte decadenza durante il quale fu spogliato dei suoi arredi. Nel 1872 il barone Marius de Vautheleret, l’allora proprietario[16], fu costretto a vendere all’asta il castello, che fu così acquistato dal pittore torinese Vittorio Avondo, che ne curò il restauro e lo riarredò con i mobili originali (recuperati sul mercato antiquario) o con copie di mobili d’epoca. Avondo donò il castello allo Stato italiano nel 1907, e nel 1948 esso divenne infine proprietà della Regione Valle d’Aosta.

Esternamente il castello appare come una dimora fortificata dall’aspetto poco appariscente, senza particolari decorazioni o affreschi e con le torrette angolari poco più alte del resto dell’edificio, situato al centro dell’abitato di Issogne.
La pianta del castello è di forma quadrangolare, di cui tre lati sono occupati dall’edificio stesso e il quarto – quello orientato verso sud – è costituito da un giardino all’italiana separato dall’esterno da un semplice muro di cinta.
Il cortile interno racchiuso tra i tre lati dell’edificio e il giardino è uno degli ambienti più suggestivi del castello. Un tempo vi si accedeva attraverso il portone che si apre sulla piazza del paese e che conduce sotto il porticato, mentre attualmente per motivi pratici si utilizza l’ingresso secondario sul lato ovest, che si affaccia esternamente su un ampio prato.
Sulle facciate che si affacciano sul cortile si trova il cosiddetto “miroir pour les enfants de Challant”, una sequenza di stemmi affrescati che raffigurano i diversi rami della famiglia Challant e le principali alleanze matrimoniali della casata, per conservarne il ricordo e trasmetterlo alle future generazioni[19]. Il muro di cinta del giardino era invece decorato con disegni monocromatici di saggi ed eroi dell’antichità, ormai quasi cancellati.
Al centro del cortile si trova la celebre fontana del melograno, una vasca di pietra di forma ottagonale dalla quale si erge un albero di melograno interamente in ferro battuto donde sgorgano zampilli di acqua. Curiosamente l’albero presenta i frutti del melograno mentre il fogliame, forse per ragioni simboliche volute dall’artista, è quello di un’altra pianta: la quercia. La fontana fu probabilmente fatta realizzare da Giorgio di Challant come dono per le nozze del suo pupillo Filiberto di Challant con Louise d’Aarberg nel 1502 ed ha come detto una forte valenza simbolica, volendo unire la fertilità e l’unità della famiglia rappresentate dal melograno, con i suoi frutti composti da molti grani, con la forza e l’antichità simboleggiati dalla quercia. Fra le fronde del melograno-quercia sono pure inseriti dei minuscoli draghi, sempre in ferro battuto e molto difficili da scorgere.
Il lato est del cortile è occupato da un porticato con le arcate a tutto sesto e soffitto con volta a crociera, sul quale si apriva il principale accesso al castello e dal quale si accede ora all’interno dell’edificio. La decorazione di tipo geometrico delle nervature delle volte a crociera è tipica dell’arte del Quattrocento.
Le lunette del porticato sono decorate con affreschi raffiguranti con realismo e umorismo botteghe artigiane e scene di vita quotidiana del tempo e rappresentano un’importante testimonianza iconografica dell’epoca a cavallo tra il XV e il XVI secolo. La lunetta del corpo di guardia mostra alcuni soldati seduti ad un tavolo intenti a giocare a carte o a tric trac in compagnia di alcune prostitute, mentre le loro armi o armature (corazze, balestre e alabarde) sono appese ad una rastrelliera addossata alla parete. Il fornaio inforna il pane appena impastato ed il beccaio gira lo spiedo mentre un gatto cerca di rubargli la carne. Nella bottega del sarto si misurano e si tagliano pezze di tessuto, mentre negli scaffali alle spalle dello speziale sono raffigurati numerosi vasi di medicinali e altri medicamenti. La lunetta del mercato mostra un’affollata vendita di frutta e verdura con numerosi clienti e venditori abbigliati nei costumi dell’epoca. Nella lunetta della bottega del salumiere sono infine raffigurate alcune forme di formaggio della tipica forma della fontina, considerate la più antica raffigurazione del tradizionale formaggio valdostano. Questi affreschi, oltre ad una funzione estetica, avevano probabilmente anche un significato celebrativo, volendo mostrare l’abbondanza e la pace ottenute grazie alle capacità del signore del castello. L’intero ciclo è attribuito ad un artista conosciuto come maestro Colin, in virtù di un graffito nella lunetta del corpo di guardia che identifica il “Magister Collinus” come autore dell’opera, autore anche dei dipinti della cappella al primo piano del castello.
Il castello comprende in tutto circa cinquanta locali, solo una decina dei quali sono visitabili attraverso la visita guidata del maniero. Una porta posta sotto al porticato conduce alla sala da pranzo, sormontata da una copertura a volta e arredata con mobili ottocenteschi fatti realizzare da Vittorio Avondo sulla base di modelli rinascimentali. La sala da pranzo era collegata alla cucina tramite un’apertura passavivande. La cucina è divisa in due da una grata lignea, creando due ambienti distinti probabilmente destinati alla preparazione di diversi tipi di cibo. La parte più ampia, adiacente alla sala da pranzo, è dotata di un grande camino e di un forno, mentre la parte più piccola comprende un camino di dimensioni minori e un acquaio.
Sul lato nord, accanto alla scala che conduce al secondo piano, si trova la cosiddetta “sala della giustizia” o “salle basse”, il principale ambiente di rappresentanza del castello. È una grande sala a pianta rettangolare, con le pareti completamente affrescate: un finto loggiato sorretto da colonne di marmo, alabastro e cristallo trasparente racchiude scene di caccia, di vita cortese e paesaggi nordici. La decorazione culmina con il giudizio di Paride, nei cui panni è raffigurato il committente delle opere Giorgio di Challant. Gli affreschi della sala, probabilmente terminati prima della morte di Giorgio di Challant nel 1509, sono attribuiti al maestro di Wuillerine, un artista ritenuto di scuola franco-fiamminga, come si può dedurre dalla presenza nei paesaggi di tetti molto spioventi e di mulini a pale tipici dei paesi del nord Europa, autore anche di un ex voto per la Collegiata di Sant’Orso ad Aosta[. Il soffitto è realizzato in legno con la travatura lasciata a vista e adiacenti alle pareti dei lati lunghi vi sono stalli intagliati in legno, rifacimenti ottocenteschi degli originali in stile tardogotico conservati nel museo civico di Torino. Sulla parete di fondo della sala si trova un grande camino in pietra decorato con un grifone e un leone che sorreggono lo stemma della famiglia Challant.
Gli altri locali del piano terra, non visitabili, ospitavano la dispensa, le stanze degli addetti della cucina e dello speziale, le prigioni, la sala dei pellegrini e quella del falconiere, il corpo di guardia e altri locali di servizio.
Il primo piano del castello era destinato alle stanze dei signori del maniero, e anche Vittorio Avondo quando acquistò il castello nel XIX secolo adibì queste stanze a sua residenza privata[31]. Vi si sale attraverso una scala a chiocciola in pietra, adiacente alla sala della giustizia, alla quale si può accedere sia dai locali del piano terra sia direttamente dal cortile. La scala è formata da una serie di gradini in pietra di forma trapezoidale, con la base più larga infissa nella muratura e conclusi nella parte più stretta da un elemento cilindrico; sovrapponendosi in verticale al susseguirsi dei gradini questi elementi cilindrici formano una colonna centrale che dona alla scala una maggiore resistenza statica. Il soffitto della rampa è ottenuto lasciando a vista l’intradosso degli scalini superiori, dando così l’impressione di un nastro continuo che si svolge man mano che si percorre la scala.
Una delle prime stanze che si incontrano salendo lungo la scala è la cosiddetta “camera di Marguerite de La Chambre”, la stanza privata prima di Marguerite de La Chambre, moglie di Luigi di Challant, e poi di Mencia di Braganza, moglie di Renato di Challant. La stanza è coperta da un soffitto in legno con la travatura a vista. In cima alle pareti, tra una trave e l’altra del soffitto, si trovano alcuni fregi raffiguranti lo stemma di Marguerite. L’arredo essenziale della stanza comprende un grande camino in pietra e un letto a baldacchino copia ottocentesca di un originale proveniente dal castello di Ussel.
Adiacente alla camera da letto si trova l’oratorio privato di Marguerite de la Chambre, una piccola stanza quadrata coperta da una volta a crociera. L’oratorio è interamente affrescato, con scene che raffigurano l’assunzione delle Vergine e il martirio di Santa Caterina e di Santa Margherita. Uno degli affreschi ritrae la stessa Marguerite de La Chambre in preghiera insieme alle due nuore e alle tre figlie. L’intero ciclo è stato ridipinto nel 1936.
Accanto alla camera di Marguerite de La Chambre e accessibile attraverso di essa oppure dalla scala, si trova una grande sala rettangolare coperta da un soffitto in legno, denominata “chambre de Savoie” nell’inventario redatto nel 1565 alla morte di Renato di Challant. In fondo alla sala vi è un grande camino in pietra sul quale sono dipinti lo stemma della famiglia Savoia – da cui l’originario nome della sala – e l’unione degli stemmi delle famiglie Challant e La Palud, in virtù del matrimonio tra Amedeo di Challant Verey e Anne de La Palud, genitori del Priore Giorgio di Challant. La sala è attualmente arredata secondo la sistemazione del XIX secolo di Vittorio Avondo, che qui raccolse la sua collezione di armi e armature antiche, ed è per questo chiamata “sala d’armi”. Completano l’arredamento una serie di mobili copie ottocentesche di originali tardogotici.
L’ultimo ambiente visitabile del primo piano è la cappella, situata nell’ala orientale del castello al di sopra del porticato del cortile. Si tratta di un ambiente lungo e stretto, coperto da una serie di volte a crociera che lo dividono in cinque campate. Una cancellata in legno divide in due il locale, separando probabilmente la parte riservata ai signori del castello da quella destinata alla servitù[35]. Gli stalli in legno addossati alle pareti sono copie ottocentesche fatte realizzare da Vittorio Avondo, mentre l’altare a sportelli è l’originale del castello, realizzato agli inizi del XVI secolo, che Avondo recuperò sul mercato dell’antiquariato dopo che era stato venduto dai precedenti proprietari del maniero. Le ante del polittico d’altare e gli affreschi della cappella, raffiguranti scene della natività, i profeti, gli apostoli e i dottori della Chiesa, sono attribuite al maestro Colin, lo stesso artista che realizzò le lunette del porticato nel cortile e che aveva anche lavorato alla decorazione della Collegiata di Sant’Orso di Aosta di cui Giorgio di Challant era priore.
Tra i locali non visitabili di questo piano vi sono le stanze e i disimpegni di Renato di Challant, delle sue figlie Filiberta e Isabella, del cardinale Madruzzo (zio di Giovanni Federico Madruzzo, marito di Isabella di Challant) e il loggiato.
Si accede al secondo piano continuando a salire lungo la scala a chiocciola in pietra. In corrispondenza delle stanze di Marguerite de La Chambre si trovano qui i locali riservati a Giorgio di Challant. La camera di Giorgio di Challant, detta anche “camera di San Maurizio” per via del soffitto a cassettoni decorato con le croci dell’Ordine dei Cavalieri di San Maurizio è arredata in modo analogo alla sottostante camera di Marguerite de la Chambre e comprende un letto a baldacchino del XVI secolo e una credenza e una seggetta ottocentesche fatte realizzare da Avondo in stile tardogotico. La stanza era scaldata da un grande camino in pietra decorato con lo stemma di Giorgio di Challant sorretto da un grifone e un leone.
Dalla camera di Giorgio di Challant si accede al suo oratorio privato, collocato in corrispondenza di quello di Marguerite. Anche in questo caso si tratta di un piccolo locale a pianta quadrata, coperto da una volta a crociera e completamente affrescato. Gli affreschi, opera dell’anonimo artista forse proveniente da oltralpe autore anche degli affreschi nell’oratorio di Marguerite de La Chambre[28], raffigurano scene della crocifissione, della pietà e della deposizione di Cristo nel sepolcro. Giorgio, committente delle opere, è ritratto inginocchiato ai piedi della croce. Come altri dipinti del maniero anche gli affreschi dell’oratorio di Giorgio sono stati ridipinti durante un restauro nel 1936.
Dalla scala principale si accede alla cosiddetta “sala del re di Francia”, situata accanto alle stanze di Giorgio di Challant e al di sopra della sala d’armi. Il nome deriverebbe dall’aver probabilmente ospitato il re di Francia Carlo VIII durante il suo passaggio in Italia nel 1494[9]. Nel XVI secolo questa era la camera nuziale di Renato di Challant e di sua moglie Mencia.
La stanza è coperta da un soffitto a cassettoni in legno ed era scaldata da un camino decorato con i gigli dello stemma reale francese. La stanza è arredata con mobili in parte recuperati da Avondo, come il letto a baldacchino con gli stemmi degli Challant-Aymavilles acquistato presso un contadino di Ussel, e in parte rifacimenti ottocenteschi.
Oltrepassando la sala del re di Francia attraverso una serie di disimpegni si raggiunge la “camera della torre”, situata nell’angolo di nord ovest del maniero nella zona più antica del castello. Le diverse finestre della stanza permettevano contemporaneamente una vista sui castelli di Arnad, di Verrès e di Villa a Challand-Saint-Victor e probabilmente questo locale era usato come torre di segnalazione. In caso di pericolo i signori del maniero avrebbero potuto rifugiarsi nel meglio difendibile castello di Verrès.
Per raggiungere l’ultima stanza visitabile di questo piano bisogna attraversare una loggia coperta da una volta a crociera. La stanza si trova all’estremità di sud-ovest del castello e nell’inventario del 1565 era citata come “chambre de l’Empereur”, probabilmente in seguito alla permanenza dell’imperatore Sigismondo di Lussemburgo nel 1414[9]. La stanza è attualmente chiamata “camera della contessina”, dalla contessina Isabella di Challant, figlia di Renato di Challant e di Mencia di Braganza, ed è arredata con un letto cinquecentesco di origine tirolese, mobilio del XIX secolo fatto realizzare da Avondo e un camino in pietra decorato con lo stemma di Giorgio di Challant.
Nell’ala orientale del castello, non visitabile, si trova un’altra loggia con volta a crociera, posizionata in corrispondenza della cappella, alcune stanze e disimpegni e le scale che conducono alle soffitte del castello. Secondo una leggenda su quel loggiato apparirebbe nelle notti di luna il fantasma di Bianca Maria Gaspardone, prima moglie del signore di Issogne Renato di Challant, che fuggì pochi mesi dopo le nozze annoiandosi per le lunghe assenza del marito. Bianca Maria fu in seguito condannata a morte per l’assassinio del suo amante Ardizzino Valperga e giustiziata a Milano nel 1526.
Una delle caratteristiche del castello di Issogne, oltre ai famosi affreschi e alla fontana del melograno, sono i numerosi graffiti lasciati nel corso dei secoli dai visitatori e dagli ospiti del castello, dai servitori o dagli stessi castellani, preservati dal fatto che il castello non ha mai subito profondi rimaneggiamenti e testimoni della vita quotidiana che ruotava intorno al maniero. Questi graffiti, solitamente incisi sulle pareti tramite punte metalliche, sono presenti in tutto il castello ma in particolare sono visibili nel porticato del cortile, nei corridoi e nelle strombature di porte e finestre.
Le scritte sono soprattutto in francese, latino o italiano, e tra di esse si trovano commenti di viaggiatori tristi oppure sollevati per la loro partenza dal castello, massime sulla vita e sul denaro, confessioni di innamorati e commenti canzonatori. Le lunette affrescate del porticato mostrano, oltre alla firma del pittore maestro Colin, commenti sull’una o l’altra delle professioni raffigurate, mentre nella galleria che porta alla camera della contessina si può leggere l’epitaffio per la morte del conte Renato di Challant “XI iulii 1565 / obiit Renatus / comes de Challant” e testimonianze di tristezza in occasione dell’anniversario della data.

CASTELLO DI FENIS

La posizione del castello, sulla cima di una leggera collina circondata da una serie di prati, fa pensare che un tempo possa essere stata la sede di un villa romana ma diversamente dal castello di Issogne, dove la stessa ipotesi è stata confermata da resti di mura di epoca romana trovati nei sotterranei del maniero[3], a Fénis non sono ancora state trovate prove di questa teoria.
Il castello viene menzionato apertamente per la prima volta in un documento del 1242, nel quale un castrum Fenitii è indicato come proprietà del visconte di Aosta Gotofredo di Challant e dei suoi fratelli. A quel tempo il maniero probabilmente comprendeva solo la torre colombaia sul lato sud e la torre quadrata, un corpo abitativo centrale e una singola cinta muraria.
L’ingresso del castello. Si può notare a sinistra la torre più antica e a destra la circolare torre colombaia.
La maggior parte dei lavori di costruzione, che hanno portato il castello ad assumere l’aspetto attuale, ebbero luogo tra il 1320 e il 1420 circa . Aimone di Challant ereditò il feudo e il castello di Fénis dal nonno Ebalo Magno nel 1337[7] e nel 1340 diede inizio a una prima campagna di lavori, realizzando un corpo abitativo centrale di forma pentagonale – ottenuto probabilmente inglobando edifici preesistenti – e la cinta muraria esterna.
Rispetto all’aspetto attuale, ai tempi di Aimone mancava ancora la torre meridionale e l’interno del castello era molto diverso. Il cortile centrale era molto più ampio e privo dello scalone in pietra, fiancheggiato a nord e a sud da due lunghi corpi di fabbrica che terminavano contro il muro occidentale. Doveva inoltre mancare completamente il secondo piano dell’edificio.
Nuovi lavori di costruzione furono voluti da Bonifacio I di Challant, figlio di Aimone, che ereditò il castello dal padre nel 1387. Dopo aver ricoperto per due anni la carica di ispettore delle fortificazioni alla corte dei Savoia, nel 1392 Bonifacio diede inizio a una nuova grande campagna di costruzioni nel maniero, in modo da adattarlo ai nuovi standard della vita cortese. Durante questa campagna edilizia furono riallineati i piani del corpo centrale e venne costruito un nuovo piano ricavandolo dal sottotetto. Fu inoltre costruito un nuovo corpo di fabbrica a ovest, facendo assumere al cortile interno l’aspetto attuale, con due piani di ballatoi in legno e il grande scalone in pietra semicircolare. Durante il feudo di Bonifacio I il castello raggiunse il suo massimo splendore e a lui si devono anche gli affreschi del cortile interno e della cappella, commissionati al pittore piemontese Giacomo Jaquerio, maestro del gotico internazionale, e realizzati tra il 1414 e il 1430.
Con la morte di Bonifacio I nel 1426 iniziò una fase di declino economico per la famiglia Challant-Fénis, a cui corrispose un periodo di stasi edilizia per il castello. Il successore Bonifacio II si limitò a commissionare al pittore Giacomino da Ivrea gli affreschi del lato orientale del cortile, non apportando nessuna modifica significativa alla struttura del maniero. Dopo di lui, per circa duecentocinquant’anni non furono praticamente realizzate nuove costruzioni e gli unici interventi riguardarono alcuni affreschi nel cortile e in uno dei locali a sud, realizzati nel XVII secolo.
Nel 1705, con la morte di Antonio Gaspare Felice, ultimo esponente del ramo Challant-Fénis, il castello passò al cugino Giorgio Francesco di Challant Châtillon, il quale nel 1716 dovette venderlo per 90 000 lire al conte Baldassarre Saluzzo di Paesana per fare fronte agli ingenti debiti[.
Iniziò quindi per il castello un periodo di vera decadenza e di successivi passaggi di proprietà. Esso rimase di proprietà dei Saluzzo di Paesana fino al 1798, quando venne venduto a Pietro Gaspare Ansermin, la cui famiglia lo conservò fino al 1863 per poi rivenderlo a Michele Baldassarre Rosset di Quart. Nel frattempo l’edificio era stato abbandonato, spogliato del mobilio e utilizzato come casa colonica, fienile e ricovero per animali.
Il 3 settembre 1895 Giuseppe Rosset, console italiano a Odessa e figlio di Michele Baldassarre, cedette per 15 000 lire[17] il maniero allo Stato Italiano per mano di Alfredo d’Andrade, il quale trattava da anni la sua acquisizione. Il castello di Fénis era già stato usato da d’Andrade alcuni anni prima come modello per il cortile del Borgo Medievale di Torino.
Già nel 1898 d’Andrade, seguace dei principî di Viollet-le-Duc, diede inizio a una prima campagna di lavori al castello, continuata fino al 1920 sotto la supervisione prima dello stesso d’Andrade e in seguito di Bertea e di Seglie. Scopo di questa campagna, anche a causa dei pochi fondi disponibili, fu soprattutto arrestare il degrado del castello, mettendo in sicurezza i muri pericolanti, rifacendo alcuni tetti, restaurando i solai e i serramenti e costruendo a est una nuova strada di accesso al castello.
Una seconda campagna di restauri ebbe luogo a partire dal 1935, a cura dell’allora Ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi e dell’architetto Vittorio Mesturino, che vollero accentuare l’aspetto medievale del castello, compromettendo in parte la leggibilità della struttura originaria. Durante questa campagna di lavori si decise inoltre di allestire nel castello un museo dell’ammobiliamento valdostano, riarredando le stanze ormai prive del mobilio originale con una serie di mobili reperiti sul mercato dell’antiquariato, benché non tutti realmente di origine valdostana.
Il castello, dichiarato monumento nazionale nel 1896[22] e ora proprietà dell’amministrazione regionale della Valle d’Aosta, è visitabile tramite visite guidate.
Il castello è costituito da un corpo centrale di forma pentagonale, probabilmente dovuta alla necessità di inglobare strutture preesistenti e di seguire le irregolarità del terreno, circondato da una doppia cinta muraria merlata lungo la quale sono posizionate diverse torrette collegate tra loro da un cammino di ronda. Le torri più grandi, a sud e a ovest, sono munite di feritoie per frecce, caditoie e beccatelli a sostegno della parte più alta. Il muro rivolto a nord, verso la strada maestra che attraversava la valle e quindi il più esposto a eventuali attacchi, era dotato di quattro torrette circolari, divenute cinque in seguito ai restauri degli anni trenta. Si accede all’interno della struttura attraverso un portale che si apre nelle mura del lato a sud e passa vicino a una delle torri più antiche del maniero. Questo ingresso è stato realizzato durante la ristrutturazione degli anni trenta, mentre l’accesso originale si trovava probabilmente nei pressi della torre quadrata sul lato ovest.
Superata la cinta muraria ci si ritrova in un cortile chiuso, che circonda la struttura centrale. Sul lato nord-est di questo cortile è presente un edificio rettangolare un tempo adibito a scuderia, mentre l’accesso al corpo abitativo centrale si trova in corrispondenza della torretta a metà del lato est[6]. Il corpo centrale si sviluppa su tre piani, che circondano un cortile interno quadrangolare, oltre al seminterrato dove erano situate le cantine e le prigioni. Il piano terreno era destinato alla guarnigione del castello e a locali di servizio: vi si trovavano in particolare il corpo di guardia, la cucina e una sala da pranzo. Il primo piano era riservato ai signori del castello e ospitava una cucina, le stanze dei signori, il tribunale e la cappella. Il secondo piano infine era destinato alla servitù e agli ospiti del maniero. Il maniero poteva accogliere complessivamente circa sessanta persone tra la famiglia del signore, eventuali ospiti, guarnigione e personale di servizio.
Percorrendo lo spazio entro la prima cinta muraria del castello si notano in alto, scolpite in pietra sulle mura, alcune maschere aventi funzione apotropaica.
Centro del corpo abitativo centrale è il piccolo cortile di forma quadrangolare realizzato da Bonifacio I tra la fine del XIV e l’inizio del XV secolo. Al centro del cortile si trova un caratteristico scalone semicircolare in pietra, sulla cui sommità svetta un affresco raffigurante San Giorgio che uccide il drago, realizzato intorno al 1415 e attribuito alla bottega di Giacomo Jaquerio. Il tema di San Giorgio e il drago era molto diffuso al tempo in Valle d’Aosta, in quanto era considerato un’incarnazione dell’ideale cavalleresco. Sull’affresco si può notare il monogramma BMS, interpretato come le iniziali del committente, Bonifacium Marexallus Sabaudiae.
Il cortile, le cui pareti sono interamente affrescate da decorazioni in stile gotico internazionale, è circondato su tre lati da una doppia balconata in legno in corrispondenza dei due piani superiori. Lungo le pareti della balconata si snoda una serie di saggi, uno diverso dall’altro, che reggono pergamene riportanti proverbi e massime morali scritte in francese antico. Un tempo in corrispondenza di ognuno dei saggi era indicato il nome del personaggio raffigurato, ma la maggior parte di essi sono ormai illeggibili, tra questi saggi è raffigurato anche un personaggio in costume arabo, probabilmente per ricordare la partecipazione di Challant a una crociata.
La parete più stretta del cortile, di fronte all’affresco di San Giorgio, fu decorata nella seconda metà del XV secolo dal pittore Giacomino da Ivrea su incarico di Bonifacio II di Challant, figlio di Bonifacio I, e raffigura i santi Uberto, Bernardo, un santo vescovo (forse San Teodulo), Santa Apollonia e Sant’Ambrogio, un’Annunciazione e dei motivi vegetali. Sotto di essi si trova un monumentale San Cristoforo, la cui attribuzione è resa difficile dai pesanti restauri subiti[11]. Essendo San Cristoforo il protettore dei viaggiatori la sua presenza nei pressi dell’uscita del castello voleva forse essere un augurio di buon viaggio nei confronti di chi lasciava il maniero.
Il cortile del castello di Fénis fu usato da Alfredo d’Andrade come modello per la Rocca del Borgo Medievale di Torino, realizzato in occasione dell’Esposizione Generale Italiana Artistica e Industriale del 1884. Il cortile della Rocca Medievale riproduce fedelmente lo scalone semicircolare, le balconate in legno, gli affreschi dei santi e San Giorgio che uccide il drago.
Dal cortile si accede a una grande stanza rettangolare che occupa gran parte del lato nord del piano terra. Questa stanza, menzionata come “grande salle basse” in un inventario redatto nel 1551 è oggi chiamata sala d’armi per la presenza di una rastrelliera per picche. Il locale era anche dotato di un trabocchetto per i condannati a morte, che consisteva in un pozzo con le pareti ricoperte da lame ricavato nella torretta circolare nell’angolo nord-ovest. Attualmente nella stanza si trova un plastico del castello e un grande camino in pietra addossato alla parete di fondo[43]. Il soffitto in legno di questa come della maggior parte delle altre sale è stato rifatto durante i lavori di restauro del XX secolo, mentre i camini in pietra fanno parte dell’arredo originale del castello.
Dalla sala d’armi si accede alla sala da pranzo, così chiamata in seguito all’allestimento del museo del 1936, mentre l’inventario del 1551 la definisce “chambre basse”. Nella stanza si trovano alcuni tavoli e sedie del XVI – XVII secolo.
Adiacente alla sala da pranzo si trova quella che doveva essere la cucina principale del castello, come suggerisce la presenza di un monumentale camino, la cui funzione doveva essere, oltre la cottura dei cibi, anche quella di riscaldare le stanze dei piani superiori[45]. La stanza è stata arredata con vari tipi di credenze in legno.
Il lato sud del piano ospitava il pozzo della cisterna per l’acqua piovana, la legnaia e altri locali si servizio. Attualmente vi si trovano un carro agricolo e una serie di bauli e forzieri.
Il primo piano, il più elegante e meno freddo del maniero, era riservato ai signori del castello. Qui si trovavano le loro stanze private, gli ambienti di rappresentanza e la cappella. Sul lato nord, in corrispondenza della cucina del piano terra, si trova un locale che la presenza di un grande camino e di un acquaio fa ritenere una seconda cucina, attualmente arredata con una serie di sedie, sedili e una coppia di panconi ottocenteschi di stile tardogotico.
A fianco della cucina si trova quella che è definita come la camera da letto del signore del castello, chiamata “chambre blanche” nell’inventario del 1551. Il muro in comune con la cucina ospita un grande camino in pietra con dipinto lo stemma della famiglia Challant. La stanza ospita una serie di contenitori e cassoni intarsiati e un letto a baldacchino con colonne tortili, riproduzione di un modello toscano della fine del XVI secolo.
Al centro del lato sud si trovano la stanza che nell’inventario del 1551 è definita “chambre des tolles”, arredata con alcuni cassoni a doppia facciata caratterizzati da una facciata decorativa sul lato anteriore, e l’adiacente “cabinet de la chambre des tolles”, che ospita un letto e un cassone del XVI secolo e una cassapanca ottocentesca, provenienti dalla collezione dell’industriale Riccardo Gualino. Giustino Boson nel suo libro Il castello di Fénis chiama queste due stanze rispettivamente “sala da pranzo” e “camera della signora”. Una chiara identificazione della destinazione dei locali è resa difficile dal fatto che quasi tutto il mobilio originale è andato perduto nel tempo e che diverse stanze hanno cambiato la loro funzione nel corso dei secoli.
L’angolo a sud ovest del piano è occupato dalla stanza definita “poelle”, ossia stanza riscaldata, e oggi chiamata tribunale. Il nome attuale deriva dalla presenza sul camino di un affresco raffigurante le quattro virtù cardinali (Fortezza, Prudenza, Temperanza e infine Giustizia, che svetta sulla altre) e lo stemma di Emanuele Filiberto I o di Carlo Emanuele I, duchi di Savoia tra il 1559 e il 1630. Nella stanza si trovano attualmente alcuni cassoni da corredo acquistati negli anni trenta a Saluzzo.
L’affresco della Madonna della Misericordia nella cappella
L’intero lato nord del primo piano è occupato da una lunga sala rettangolare definita cappella, uno degli ambienti più suggestivi del castello. In passato la sala era probabilmente divisa in due da una grata lignea analoga a quella presente nel castello di Issogne, che separava la cappella vera e propria dal locale di rappresentanza chiamato “salle de la chapelle”. Il lato occidentale ospita un grande camino in pietra e le pareti dei lati lunghi e a ovest sono decorate con motivi geometrici eseguiti durante il restauro del XX secolo sulla base di un frammento del XIV secolo rinvenuto da Alfredo d’Andrade nei pressi del camino. La stanza è arredata con una serie di mobili in stile tardogotico.
Il lato est della grande sala ospitava probabilmente la cappella privata dei signori del castello. L’inizio del locale è evidenziato da una trave che attraversa trasversalmente la grande sala rettangolare. In corrispondenza di essa si trova un pregiato crocifisso ligneo che i recenti restauri hanno permesso di attribuire alla bottega del Maestro della Madonna di Oropa, dalla quale provengono diverse sculture sacre destinate a chiese valdostane tra la fine del XIII secolo e i primi anni del XIV secolo.
Diversamente dalla decorazione geometrica del resto della stanza, le pareti laterali della cappella sono completamente affrescate con figure di santi e apostoli disposte su due file sovrapposte. La parete di fondo è divisa in due da una grande finestra ai cui lati si trovano sulla destra una crocifissione e sulla sinistra una Madonna della Misericordia.
Ai piedi della Madonna, protetti dal suo mantello, vi sono due gruppi di fedeli separati in laici (sulla destra di chi guarda) e religiosi (sulla sinistra di chi guarda). Tra di essi è possibile riconoscere diverse figure dell’epoca, tra i quali il Papa e l’Imperatore, disposti immediatamente a fianco della Vergine come capofila rispettivamente dei religiosi e dei laici, e alcuni membri della famiglia Challant, come il committente delle opere Bonifacio I (nel gruppo dei laici vestito con un abito rosso), il fratello di Bonifacio Amedeo di Challant-Aymavilles e la sua giovane sposa Luisa di Miolans.
Gli affreschi della cappella, così come la maggior parte di quelli del cortile, sono stati realizzati in stile gotico internazionale nei primi decenni del XV secolo e attribuiti alla scuola del maestro piemontese Giacomo Jaquerio. Non è certo se Jaquerio abbia lavorato di persona alle opere, mentre sembra sicuro l’uso dei modelli Jaqueriani.
I recenti restauri eseguiti sugli affreschi della cappella hanno messo in evidenza alcuni dettagli che fanno pensare a una certa fretta di concludere il lavoro, come la presenza nell’affresco della crocifissione della traccia di una figura in armatura inginocchiata, mai realizzata.
Il secondo piano del castello, non accessibile durante le visite guidate, era raggiungibile attraverso una scala a chiocciola. Esso era destinato agli alloggi della servitù, dei soldati, alle camere per gli ospiti e alle soffitte. Dal secondo piano, attraverso la torre del lato ovest, era possibile salire sul tetto dove si trovava un cammino di ronda.
Il tetto, in lose di pietra, è caratterizzato da un doppio spiovente, la parte interna del quale convoglia l’acqua verso il cortile centrale sottostante dove poteva essere raccolta nella cisterna.

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